Home-page
 Le Opere
 Biografia romanzata
 La Poematica
 La Critica
 Figura umana e poetica
 Bibliografia
 CONTATTI
 BLOG




Torna all'eleno completo delle Opere

Veniero Scarselli
VERA STORIA DEL VASCELLO FANTASMA

 

Parte prima

Un vecchissimo uomo di mare
incontra tre giovani sgallettati
invitati a una festa di nozze
che vociando allegramente (sono forse
già un po’ avvinazzati) si dirigono
a quel luogo di eccitanti delizie.
E’ un verace vecchio Marinaio
dell’antica marineria dei velieri;
forse un giorno era biondo di pelo
e aveva gli occhi chiari come il cielo,
ma ora fra le grinze nascondono
tutti i loro inquietanti ricordi,
ruggiti di venti sovrumani
e famelici mari ultraterreni,
apparizioni di mostri marini;
sembra un essere umano redivivo
da un lungo viaggio nell’Eternità,
ma ora trascina a malapena
la sua carcassa dalla barba riccia e dura.

Il vecchio ha agguantato per il braccio
un giovinastro, ma quello: <Ehi tu, barbaccia,
che cazzo vuoi per metterti in mezzo?
non vedi con quell’occhio spiritato
che già è aperta la casa dello sposo
e proprio io sono un parente stretto!
Ci son già ospiti, la festa è incominciata,
non senti il grande baccano?>
Il Marinaio l’ha aggrinfiato con la mano
e balbetta <No, no… ti prego aspetta…
è scritto che devi ascoltare.
C'era una nave... fu un giorno lontano…>
ma il giovane gli urla infuriato:
<Smetti di toccarmi, pezzente,
e lèvati di mezzo>. Allora il vecchio
sembra rassegnarsi a mollare
il braccio impaziente del ragazzo
poiché lascia cadere la mano;
ma per poco, ancora arde nel suo occhio
la sovrumana immensità degli oceani
e continua a scrutare l’invitato
da capo a piedi. Una superna forza
ora inchioda costui ad ascoltare;
forse è l’aliena luce di quegli occhi
e l'invitato alla festa di nozze
è costretto a restarsene immobile
ad aspettare come un piccolo bambino,
sta seduto su una grossa pietra
sul ciglio della strada della festa
e non può fare nient'altro che ascoltare.

Così parlò il vecchissimo Marinaio
con gli occhi sempre più perduti
nella folle immensità dell’oceano:
<Buon Dio, era sempre la mia vecchia nave,
ma aveva ancora tutti i buoni auspici
quando mollò gli ormeggi e uscì dal porto
con le vele spiegate da una brezza
che si prometteva favorevole;
scivolammo dolcemente sul mare
proprio sotto il campanile della Chiesa,
poi doppiammo il promontorio e la collina
ed infine la torre del faro.
Si veleggiava ancora con buon vento
verso Sud, e la nostra buona sorte
ci portò felicemente a traversare
con cielo sereno l’Equatore:
avevamo il Levante a sinistra
quando il sole sorgeva dal mare,
poi ardeva luminoso tutto il giorno
e a sera sulla nostra dritta
sprofondava di nuovo nell’oceano;
ma a mezzogiorno splendeva esattamente
a perpendicolo dell'albero di Maestra,
come ci si aspetta all’Equatore>.

Il Convitato ora freme d'impazienza:
ode l’allegro baccano della festa,
le seducenti musiche che osannano
l’unione felice degli sposi,
ma il vecchio continua la sua storia.
E’ apparsa la giovane sposa
rossa in volto per l’eccitazione,
splendida come una rosa;
entra in sala col suo passo grazioso
corteggiata dagli allegri musicanti
che ondeggiano a ritmo di danza,
ma il vecchio continua la sua storia.
Il Convitato freme d'impazienza,
ma non può fare nient’altro che ascoltare
quel vecchio Marinaio che ora parla
a ruota libera con gli occhi dilatati
che sembrano usciti da poco
dalla brace più infuocata dell’Inferno.

<Fu allora che un Grande Uragano
ad un tratto s'abbatté su di noi
signore della vita e della morte,
in faccia ci colpì con le sue ali
e trascinò furiosamente verso Sud.
Con gli alberi piegati e con la prua
che ad ogni ondata terribile s'immergeva,
il vascello inseguito dal vento
e tallonato dall’ombra del Maligno
si gettò a testa bassa sull’onda
per fuggire dall’occhio del ciclone
ma purtroppo era preso nel turbine
davanti all'uragano che ruggiva
e ci cacciava sempre più verso l’orrida
Antartide, l’ignoto Polo Sud.

Là trovammo finalmente la quiete
ma anche un’orribile nebbia,
la neve che cadeva implacabile,
ed il tremendo freddo del Polo
che congelava il fiato e la parola
mentre uscivano a stento dalla gola.
Non v’era traccia di esseri viventi,
ci venivano incontro enormi ghiacci
che col calare della nebbia apparivano
ora verdi, ora traslucidi, e da lontano
emanavano un lugubre splendore
quasi fossero di puro smeraldo;
erano sospinti dal vento
sebbene fossero molto più alti
dei nostri alberi spogli di vele,
e da quelle montagne alla deriva
lastroni di ghiaccio si spaccavano
con gemiti pietosi e ruggiti
come bestie ferite, poi crollavano
con fragori spaventosi; infine il mare
fu tutto una lastra di ghiaccio.
Era questo il famoso Ghiaccio Eterno
e prese prigioniera la nave
impedendo ogni fremito di vita,
una condanna peggiore della morte.

Ma ecco che uscito dalla nebbia
ora apparve un maestoso uccello
dalle enormi ali spiegate,
quasi una celeste creatura
generata dalle immensità
dei cieli e degli oceani: era un Albatro,
colui che dalle ciurme in traversia
è sempre accolto con grida di festa
come il santo protettore dei naviganti.
Lo salutammo dunque e ringraziammo
nel santo Nome del Signore, e inginocchiati
pregammo perché la sua anima,
certo cristiana, avesse lunga vita.
Il buon Uccello senza alcun timore
a lungo volava e planava
in grandi ruote davanti ai nostri occhi
gradendo perfino il nostro cibo;
e così cominciò la breve storia
d’una tenera commovente amicizia.

Fu forse grazie alla sua intercessione
che un giorno accadde un fatto prodigioso,
poiché con un rombo di tuono
la banchisa s’aprì e il timoniere
poté finalmente avere un varco
per fare avanzare la nave
fendendo con nuova fiducia
i frammenti di ghiaccio galleggianti.
L’Albatro era dunque un uccello
di buon augurio, forse inviato
dal buon Dio per portarci fortuna
e farci uscire da quella paurosa
regione di caligini e di iceberg
nella rotta di ritorno verso Nord.
S’alzò infatti un vento favorevole
che veniva esattamente da Sud
e ci spingeva per la rotta giusta
dritti verso il paese natio,
mentre il nostro amico fedele
continuava a seguirci mansueto,
benignamente ogni giorno accorrendo
al richiamo familiare dei marinai.
Così, fosse nuvolo o nebbia,
continuò per nove sere a riposare
su una sartia, su un albero, o un pennone,
mentre in cielo per tutta la notte
il bianco splendore della luna
si spandeva con un bell’alone
promettendo sicuro bel tempo>.

Ma il giovane Invitato di nozze
ora grida spazientito: <Va bene!
Dio ti salvi e ti faccia andare in pace,
vecchio Marinaio, scacciando
tutti i dèmoni che ancora chiaramente
tanto ti tormentano l’anima!
Ma perché adesso mi fissi
con terribili occhi di fuoco
che fanno quasi paura?>
<Perché ho fatto una cosa mostruosa
e non so neanche per quale capriccio
- dice il vecchio con le lacrime agli occhi -
ma confesso che accadde, e fui io,
solo io, con l'infame balestra
a uccidere… uccidere l'Albatro!>

Parte seconda

Ora il sole non era più lo stesso;
è vero, ancora sorgeva sulla dritta
velato di foschia, ma con fatica
usciva dal mare e poi la sera
ripiombava sinistramente nell'oceano;
il vento favorevole da Sud
ancora ci spingeva da poppa,
ma ormai non ci seguiva più
l’Uccello Protettore, non più
scendeva benevolo al richiamo
disperato dei poveri marinai
che con grida strazianti lo invocavano
perché almeno il suo caro fantasma
tornasse a prendere il cibo dalle mani.
Ma lungi da essere rassegnati
all’incerto destino, essi anzi
erano aspramente furiosi
per la mia malvagità: gli avevo ucciso
l’Uccello della buona fortuna,
e quell'azione così scellerata
ci avrebbe portato sventura;
tutti insieme gridavano concordi
che io per un infame gioco
avevo ucciso proprio colui
che ci aveva mandato il buon vento.
<Ah, miserabile – urlavano –
uccidere l'Uccello della fortuna!>

Ma infine la nebbia e la foschia,
la neve e i ghiacci, ed anche il vento gelido
scomparvero quasi per miracolo;
anche il Sole adesso sorgeva
né pallido né opaco dall'oceano
ma col suo solito rassicurante fulgore;
tutti dissero allora, rinfrancati
e rinnegando le precedenti maledizioni,
che l’Albatro era certo un uccello
del malocchio, e avevo fatto bene
con coraggiosa decisione ad ucciderlo.
Il sole fulgido e alto sembrava
ormai assicurarci la Grazia
e la benevolenza di Dio
e tutti ammisero allora concordi
ch'era morto l'uccello del maltempo
e che fu lui a spingerci al Polo
in quella morsa di ghiaccio; pertanto
è addirittura doveroso ammazzare
senza pietà tutti quegli uccelli
che si vedono errare senza meta
certo con malevole intenzioni
per i cieli e gli oceani del mondo,
perché tutti potrebbero essere
potenziali portatori del malocchio.
In questo modo tutta la ciurmaglia
si strinse intorno a me diventando
anch’essa complice scellerata
del mio scellerato delitto.

A lungo la brezza propizia
continuò facendoci felicemente
entrare nell’oceano Pacifico
con tutte le vele spiegate,
e infine con lo stesso buon vento
veleggiammo sicuri verso Nord
attraversando di nuovo l’Equatore.
Da giorni e giorni la nostra vecchia nave
teneva dunque un’andatura veloce
alte spume sollevando con la prua
e lasciandosi dietro una gran scia;
finché – dannazione! – la brezza
venne improvvisamente a cessare.
Eravamo entrati in una zona
priva assolutamente di vento,
una sorta di trappola marina
come capita talvolta ai velieri
nelle lunghe navigazioni oceaniche,
ma mai avrei creduto ch’essa fosse
proprio la regione delle antiche
leggende, la regione perduta
della Grande Assoluta Bonaccia.
Era invece proprio il regno infernale
del Silenzio e della Morte,
dell’ardente soffocante calura,
da cui nessun santo protettore
avrebbe potuto salvarci
tranne forse raccomandando a Dio
delle anime pure e innocenti;
ma le nostre non erano né pure
né innocenti e trascinavano ancora
una recente insanabile colpa.
Dovetti allora dichiarare pubblicamente
ch’era stata la postuma vendetta
e la malvagità dell’Albatro
a far cadere il vento per punirci
con un atto di natura soprannaturale
inchiodando la nave nella cieca
inesorabile bonaccia d’un oceano
così incredibilmente immobile.

Consumammo una serie infinita
di giorni tutti uguali e soffocanti
che nessuno osava più contare,
le vele pendevano da tempo
come piombi dagli inutili pennoni
cotte dalla grande calura,
nell’aria spettrale c’era solo
lo stanco suono delle nostre parole
ad alleviare la terribile angoscia
del pozzo di afa e silenzio
di cui eravamo prigionieri.
Nell’aria infuocata anche il sole
stava sempre crudelmente a perpendicolo
e nella vana ricerca d’un po’ d’ombra
avevamo ridotto anche il respiro
per rallentare il fatale disseccarsi
dei polmoni; giorno dopo giorno
eravamo sempre più simili
a statuine collocate per caso
sulla tavola eterna del Tempo.
La beffa atroce era che ovunque
si posasse lo sguardo c’era un oceano
infinito di acqua, eppure il legno
del ponte riarso dal sole
si fendeva ed infine spaccava;
c’era ovunque un oceano di acqua
desiderosamente luccicante
davanti alle gole vogliose
crudelmente screpolate dall’arsura,
ma neanche una goccia per bere.

Col tempo anche gli abissi dell'oceano
cominciarono a corrompersi: milioni
di orribili vegetali salivano
dai fondi abissali coi lunghissimi
folti steli di fogliame: sargassi
che subito a galla marcivano
facendo del mare una palude.
Ma, Cristo, non bastava, poiché ancora
accadde che in quell’acqua limacciosa
nuotassero viscide cose
dalle corte zampe mollicce
che si pascevano avidamente del marciume,
mentre una ridda satanica di fuochi fatui
come quelli dei morti nei cimiteri
danzavano per tutta la notte
tutt’intorno su un mare stregato
che aveva fiamme di tutti i colori.

Certo uno Spirito Maligno
da lungo tempo ci perseguitava:
certo uno degli esseri invisibili
della Terra e delle Acque, di sicuro
non un’anima innocua di defunto
e neanche un Angelo del Cielo, ma qualcuno
ch’era evaso dall’inferno dei dannati,
e nei libri di scienza si legge
che non v’è oceano dove questi parassiti
non proliferino nutrendosi coi succhi
delle vite degli esausti naviganti.
Un marinaio assicurò perfino
che in sogno aveva visto spaventato
proprio quello Spirito delle Disgrazie
che ci voleva tutti morti d’inedia;
era visibilmente resuscitato
con un’anima e un corpo reincarnati,
e a nove braccia sotto il ventre della nave
ci seguiva attentamente in silenzio
fin dai ghiacci eterni dell’Antartide.
Noi certo sapevamo il suo nome,
ma ora le lingue erano secche
fino alla radice della gola
e nessuno aveva più la forza
di recriminare o fiatare;
eppur così divorati dalla sete
tutti erano concordi, vecchi e giovani,
a lanciarmi occhiate spaventose,
muti accusandomi della loro sventura.
Ma invece d’impiccarmi o crocifiggermi,
quelle carogne inventarono il supplizio
più diabolico: mi legarono al collo
con una salda corda di canapa
– mio Dio che empio e orribile castigo! –
l’immondo cadavere putrefatto
del povero Albatro assassinato
che gridava ad alta voce vendetta.

Parte terza

L’eternità del tempo trascorreva
consumando mortalmente anime e gole
che riarse dal sole implacabile
languivano sulle tavole del ponte
ormai tutto crepato per la secchezza.
Ognuno guardava al suo vicino
malevolmente, pur con l’occhio già vitreo
ricoperto di acre salsedine;
eppure un giorno, al mio sguardo appannato
che per caso era volto ad occidente,
accadde il fatto inaudito di scorgere
fra cielo e mare un punto piccolissimo
che certo fino allora era sfuggito,
tanto a stento esso era percepibile.
A poco a poco ai miei occhi velati
parve simile a una piccola nuvola,
la quale però a vista d’occhio
s’ingrandiva, sì, ero sicuro,
s’ingrandiva e dunque avvicinava,
e quando divenne più distinta
mi sembrò addirittura familiare:
ora balzava ed ora s’immergeva,
beccheggiava, alzava spume, straorzava,
cavalcava la superficie del mare
come fanno i mostri marini.
Quando la Cosa fu abbastanza vicina
riconobbi in uno scoppio di gioia
che non era un mostro marino
ma aveva l’aspetto mai sperato
d’una Nave! Invano tentai subito
d’inneggiare all’evento gridando
a più non posso, ma purtroppo dalla gola
incartapecorita dall’arsura
non poteva uscire alcun suono,
con le labbra incollate e indurite
non potevo neanche ridere o piangere;
dovetti allora mordermi il braccio
e succhiare un po’ del mio sangue
per poterle almeno un poco ammorbidire
e riuscii a liberare finalmente
la parola dalla strozza e gridare:
<Uomini all’erta! c’è un veliero! un veliero!>

Tutte quelle povere gole,
quelle labbra incollate e indurite
che risvegliandosi s’aprivano spaccandosi
con una smorfia dolorosa di sangue
molto simile a un sorriso osceno,
riuscirono appena a rantolare:
<Gran Dio, che tu sia ringraziato!>
Nonostante la bruciante salsedine
e le labbra ferite, tutti quanti
divoravano l’aria pur rovente
con respiri frenetici e impazienti
già sicuri di venir liberati
dal sopore d’una morte certa
e di potersi avidamente abbeverare
a un generoso barile d’acqua pura.

Invece fu l’orrore a sopraffarli
quando qualcuno disse <non può essere
una nave vera e reale
se avanza senza un alito di vento
e senza neanche una provvida onda
che la sollevi e sospinga velocemente
facendola volare sui frangenti:
forse è una Fata Morgana!>
Ma ottenebrato dalla mia esaltazione
gridai con tutto il fiato in gola
<no, no, guardate per Grazia di Dio!
non vedete che più non bordeggia,
ma dirige veloce a tutta vela
per una rotta che passa di sicuro
a poche yarde dalla nostra nave
certo coi barili pieni d’acqua
e dunque la salvezza! non vedete
che pur senza onda né vento
la prua superba è vera e reale
proprio davanti ai miei e ai vostri occhi,
e sta fendendo il mare con veri
e reali baffi di schiuma!>
Ciò che non dissi per carità cristiana,
ma che con grande angoscia pensai,
fu <basteranno le nostre grida rauche
a fermarla quando passerà
velocemente a qualche yarda da noi?>

Più lontano ad occidente i flutti
rosseggiavano come di fuoco,
ma il sole non era al tramonto
anzi splendeva in tutta la sua luce
dritto in cielo col suo disco tondo
smisuratamente dilatato,
così che quando la Nave sconosciuta
con tutta la sua alberatura
fu tra noi e lui, l’enorme astro
sembrava prigioniero d’una grata
da cui malevolmente spiarci.
Ma poi anch’esso prese a calare
per andare lentamente a morire
sulla superficie del mare
e allora la luce radente
dei suoi ultimi raggi passò
agevolmente attraverso la Nave
mostrando tutto il guasto fasciame
e gli scheletrici spuntoni delle costole:
ora essa sembrava una gabbia
attraversata dalla luce spettrale
del tramonto, poco prima che scendessero
le ombre della notte. Spogliata
da ogni riconoscibile appannaggio
di orgoglioso veliero, ora apparve
nel suo splendido orrore di scheletro
costretto eternamente ad inseguire
una lontana meta designata
ma forse neanche da lei conosciuta.

Col fiato sospeso seguivamo
la sua rotta misteriosa e forse anche
con un po’ di ammirato timore
il suo ancora nobile portamento
di vecchia Signora degli oceani;
ma un vero terrore m’afferrò
quando vidi che inaspettatamente
essa aveva virato di bordo
ed ora – mio Dio! – avanzava
contro di noi avvicinandosi rapidamente;
distinguevo già molto bene
i frustoli strappati delle vele
una volta gonfie di vento
ma da un’eternità penzolanti
dai pennoni come ragnatele;
sempre più distintamente si vedeva
il guasto profilo delle murate,
e il cassero privo di governo
con la ruota del timone allo sbando.
Era chiaro che a bordo della Nave
non v’era traccia di pilota vivo o morto
né d’alcun altro simulacro umano
fatto di carne; unica abitante,
assisa in trono come vera dea
che riempiva di sé tutto il ponte,
c’era solo la Regina degli Spettri
e il suo degno alter ego: la Morte.

Ma la gabbia di costole della Nave
era anche da un’eternità
la sua stessa angusta prigione
da cui forse la Regina degli Spettri
governava la Nave maledetta,
e non riuscivo a soffocare in me
la domanda se l’orribile Donna
fosse il solo equipaggio, o comandasse
una ciurma di morti-viventi;
aveva infatti la bocca ancora intrisa
di rosso sangue, i capelli irti di serpi
e la pelle corrotta dalla lebbra:
era l’orrore della Morte-Vivente
ed a guardarla ci gelava il sangue.
Infine la Morte-Vivente
e la sua degna compagna, la Morte,
sghignazzando come donne da trivio
si giocarono a dadi il mio equipaggio,
che cercava come topi ogni angolo
in cui potersi nascondere; alla fine
vincitrice fu la Morte-Vivente
e a me toccò la sorte d’esser vinto;
dovetti dunque esser suo anima e corpo
per tutto il gioco: <il gioco è fatto!> disse,
e lo scheletro scellerato della Nave
arrestò finalmente la sua corsa
e sembrò un ignudo fantasma
inchiodato nella distesa dell’oceano.
Ella, soddisfatta d’aver vinto,
prima di ritirarsi nel cassero
fece ripetutamente squillare
la campana di guardia dei morti.

Il sole si tuffò nell’oceano
senza neanche la sosta del crepuscolo,
e fu un buio spettrale senza stelle.
Forse qualche Protettore ebbe pietà,
o ci arrise un po’ di fortuna,
poiché in quella lunga notte
ancora orrendamente più buia
per la Bonaccia che ci aveva imprigionati
quella oscena nave di zombi
inaspettatamente si dileguò,
abbandonandoci muti e interdetti
a origliare il fruscio soffocato
della scia che veloce s’allontanava.
Restò allora soltanto la luna
a illuminare quella notte di tregenda,
ma noi continuammo a scrutare
per tutto l’orizzonte l’infinita
distesa del mare con l’angoscia
di un nuovo devastante ritorno
del Vascello; invece tutt’intorno
luccicava soltanto la tranquilla
increspatura del mare, mentre a bordo
illuminato dalla lampada di guardia
sembrava esser lì a rincuorarci
il pacioso faccione del timoniere.
Lungo le vele che pendevano inerti
colava la rugiada della notte
in gocce luccicanti come gemme;
facemmo a gara per leccarle ad una ad una,
ma non bastavano certo a calmare
l’antica sete, onde tutti gli sguardi
tornarono a vagliare l’orizzonte
fra cielo e mare coi muscoli contratti
ma l’occhio spento; infatti già stremate
le nostre forze stavano arrendendosi
ad una fine forse già da tempo
predestinata: tutti i miei compagni
ad uno ad uno in composto silenzio
stramazzavano cadendo sulla tolda;
ben cinquanta esseri umani
senza neppure un gemito o un sospiro
come pesanti pietre senza vita
fecero un tonfo sulle tavole della nave.
Poi le anime dei poveri marinai
cominciarono a volare via dai corpi
avviandosi ognuna alla sua pena,
e forse per un ultimo saluto
veloci mi sfiorarono il viso
con un gelido soffio dell’aria.

Parte quarta

L’invitato alla festa di nozze
con inquietudine comincia a temere
d’aver davanti non un essere umano,
ma un malo spirito venuto dall’Ade
che si ostina a parlare con lui
per un motivo ancora sconosciuto:
<Mi fai paura, vecchio, mi spaventa
la grinfia della mano nera e ossuta,
il volto scuro incrostato di sabbia
come quello d’un morto che a lungo
sia giaciuto a marcire in fondo al mare;
tranne l’occhio, che non è d’un morto
ma soltanto del Diavolo, e sfavilla
come tizzone uscito dall’Inferno>.
<No, non temere, ragazzo – rispose
il vecchio Marinaio – non temere,
la mia è vera vita corporale
come la tua, e non viene dall’Inferno
ma dall’orribile solitudine dell’oceano;
il destino non ha voluto spegnerla
insieme agli altri sulla tolda della nave
e restai solo, nessun santo ebbe pietà
della mia anima costretta ad assistere
per mia colpa alla morte straziante
di tutti quegli uomini, una volta
pur forti e coraggiosi marinai,
che uno dopo l’altro si accasciavano
mentre migliaia di schifose creature
abitatrici del fango e della morte
avide accorrevano a nutrirsi
delle povere carni ancora calde.
Credi, alzai spesso lo sguardo verso il cielo
tentando una preghiera, ma purtroppo
dalla gola inaridita non usciva
alcuna invocazione, tranne un lugubre
incomprensibile rantolo del fiato.
Allora chiusi gli occhi sperando
di non doverli riaprire mai più.

La giusta maledizione era infatti
ormai fissata per l’eternità
nelle loro pupille, per prodigio
ancora dilatate, che lanciavano
alla mia volta sguardi pieni d’odio.
Non c’è maledizione più orribile
di quella dell’occhio d’un morto,
e per ben sette giorni e sette notti
la dovetti sentire sulla pelle,
ma il mio desiderio di morire
non venne accolto; allora per lenire
la snervante attesa di subire
la mia morte, mi misi a contemplare
il placido cammino della luna
e a contare una a una le stelle
nelle loro eterne traiettorie
sulla volta celeste: l’unico luogo
di autentica pace del Creato.
Ben presto osservai che la luna
non riusciva a raggiungere il suo culmine,
saliva lentamente con le stelle
ma i suoi raggi si prendevano gioco
delle increspature del mare:
con la fredda luce burlona
spargeva ovunque mille luccichii
sulla sua superficie illuminando
anche un singolare ribollio
che avvolgeva la pancia della nave;
vidi allora che lì si agitavano
gli strani figli della Grande Bonaccia
che Dio ed il chiaro della luna
avevano stanato dal buio
dei profondi abissi dell’oceano.

Potei vedere per la prima volta
anche i mitici serpenti marini
di cui si narra ma nessuno vide,
e restai stupefatto a osservarli
poiché non erano crudeli creature
uscite dall’Ade, ma piuttosto
sembravano innocenti bambini
intenti chiassosamente ai loro giochi:
saltavano infatti qua e là
facendo gran gorghi di schiume,
che restavano a lungo luccicanti
nell’indulgente chiarore della luna.
Francamente non potei fare a meno
d’ammirarne le tinte sgargianti
rotolarsi e srotolarsi in mille spire
disegnando arabeschi d’acqua e luce;
oh innocue felici creature!
– pensai – e allora un empito di affetti
finalmente germogliò nel mio cuore
da tanto tempo purtroppo incapace
di provare sentimenti umani
e di vedere che al di là del Male
c’è anche un Bene che nutre l’universo.
Quasi senza accorgermi benedissi
la loro consolatrice esistenza
e certo il mio angelo custode
ebbe questa volta pietà,
perché potei finalmente pregare
e il perverso incantesimo si ruppe:
il putrido cadavere dell’Albatro
che i timorosi compagni per punirmi
avevano appeso al mio collo
si slegò magicamente e cadde in mare
scomparendo nel profondo dell’oceano.

Parte quinta

Che dolcissima cosa è il Sonno,
per cui è invocato dovunque
da un capo all’altro della terra e del mare!
Sia dunque grazie alla Madre di Dio
che generosamente volle scendere
dal Cielo di suo Figlio ristorando
con un sonno profondo la mia anima
fino allora tormentata dai dèmoni,
e con una provvida pioggia
anche il mio corpo martoriato dalla sete.
Sul ponte i secchi vuoti rotolavano
leccati fino all’ultima goccia
dalle lingue morenti dei compagni,
mentre io da tanto tempo sognavo
che almeno potessero trattenere
quel poco di buona rugiada
generata dalla notte; ed ora
che avevo gli occhi ancora impastati
dal lungo coma mi veniva concesso
di bere addirittura la salvezza
da quella benefica pioggia
con tutte le labbra e la gola
tese avidamente verso il cielo.
Avevo le vesti già intrise
di buona dolcissima acqua
ma ancora non ne ero saziato;
tanto era antica e inestinguibile
la mia sete, che ero sicuro
d’aver bevuto (ma forse era un sogno)
perfino mentre profondamente dormivo.
Adesso mi pareva galleggiare
come fossi portato in una bolla
fatta d’una extraterrestre felicità,
sicché dovetti credere per forza
che fosse di natura celeste
ed io fossi stato già assunto
in cielo fra gli spiriti beati.
Allora ringraziai la Morte
per essermi stata pietosa
esaudendo finalmente il desiderio
di coglier la mia anima nel sonno.

Ma dovevano ancora accadere
moltissimi strani fenomeni
per mettere alla prova le mie forze.
Si udiva infatti già rumoreggiare
da Est un vento di tempesta lontana
ma che rapida si stava avvicinando
con boati minacciosi, poi le vele
in balia dei colpi di vento
cominciarono a sbattere furiosamente
riducendosi a laceri stracci
mentre il cielo brulicava di lampi:
mille elettriche lingue di fuoco
che guizzavano vivide qua e là
da un capo all’altro dei pennoni e degli alberi;
infine un’enorme, gigantesca
nuvola nera si gettò sopra di noi
con strano impeto e vomitò a dirotto
incredibili fiumi di pioggia.

Quando la grande pioggia cessò
e il vento da Est infine cadde,
anche la fitta coltre di nubi
s’aprì facendo riapparire la luna.
Ma ecco che a cielo assolutamente
sereno un fulmine piomba sulla nave
con un rombo spaventoso e qui avvenne
– giuro! – il miracolo della Reincarnazione:
vidi infatti i corpi decomposti
dei miei vecchi compagni per prodigio
riacquistare la vita perduta
e la nave muoversi di nuovo
senza essere spinta da alcun vento!
Quei poveri morti, risorti
a causa della scarica elettrica,
si lamentavano pietosamente, piangevano,
ma si muovevano! Si alzavano, camminavano,
seppur con gli occhi fissi nel vuoto
e senza una parola. Giammai,
neppure in sogno avrei potuto immaginare
l’incredibile realtà d’un risveglio
di automi piuttosto che di uomini,
invece vidi coi miei occhi il timoniere
stare alla ruota d’una nave immobile
e i marinai (o meglio i loro spettri)
intenti ai lavori abituali
con drizze, gomene e paranchi;
ma i loro movimenti automatici
non erano consapevoli d’uno scopo,
come fossero privi del tutto
di una intelligenza ordinatrice,
forse anche privi d’una vera vita.
Io stesso, pur stando vicinissimo
al figlio tanto amato d’un fratello,
credevo tirassimo insieme
la medesima drizza d’una vela,
ma il nipote sebbene mostrasse
gesti apparentemente umani
sembrava esser privo totalmente
del più elementare sentimento
poiché mai mi rivolse una parola.
Tuttavia qui desidero si sappia
(ed insisto su tale argomento)
che tali eventi non accaddero mai
per intervento maligno di dèmoni
della terra o dell’oceano,
bensì sotto la vigile custodia
d’una schiera benedetta di angeli
inviati in soccorso dal Cielo
appena ebbi invocato il santo nome
del Protettore di noi marinai.

<Vecchio, sempre più mi spaventi
con le tue storie soprannaturali>
ora grida il giovane Invitato,
ma il veccchio insiste: <tranquillizzati ragazzo,
perché non era vita del Diavolo
quella tornata nei corpi disfatti
dei compagni, ma era una Grazia
seppur provvisoria che il buon Dio
donava loro dopo averli mondati
dai loro pur lievi peccati.
Tutto ciò era di buon auspicio
per quella misera vita di automi
priva di dolore e di gioia:
quando infatti cominciò ad albeggiare
i miei compagni tenendosi per mano
circondarono l’albero di maestra
e mentre cantavano dolcemente
le loro anime abbandonarono i corpi
esalando serenamente dalle bocche,
questa volta per andare dritte in Cielo.
Per tutto l’orizzonte si sentiva
una grande armonia di suoni e canti
mentre dall’alto scendevano struggenti
i gorgheggi dell’Uccello del Paradiso.

Ma quando i suoni e i canti cessarono,
ristagnò di nuovo sul ponte
un silenzio di pietra che chiuse
le orribili bocche spalancate
dei corpi vuoti di anima che ancora
giacevano sul duro tavolato
e forse chiedevano pietà;
anche i frustoli rimasti delle vele
pur prive d’una brezza gentile
sembravano ostinatamente attaccarsi
alla memoria di gloriose navigazioni
e in quella triste Grande Bonaccia
riuscivano a imitare il fruscio
della brezza in un bosco di pini.
Io ormai sapevo per certo
che la nave era stata trainata
fin lì da un Essere Soprannaturale
che la teneva saldamente per la carena,
e aggrappato sempre alla chiglia
a nove braccia di profondità
aveva portato la nave
fino dal lontano Polo Sud
con la sua sorda volontà di vendetta
per imprigionarla nella Bonaccia;
anche il sole spietatamente a picco
sull’albero di maestra sembrava
godere ad inchiodare la nave
per sempre nell’oceano sterminato.
Conclusi allora che le orribili bonacce
dell’Equatore fossero la meta
designata della mia condanna,
la tomba in cui doveva terminare
la selvaggia navigazione della nave
insieme all’inutile mia vita;
e allora capii ch’era ora
di chiudere gli occhi - anch’essi
troppo stanchi per avere troppo visto -
e lasciarmi lentamente morire;
così cominciai a poco a poco
a lasciare fluire nel corpo
il quasi dolce torpore della morte
affinché ne prendesse possesso.

Non so dire quanto tempo rimasi
in quello stato di agonia aspettando
che il sangue abbandonasse le vene
facendomi perdere del tutto
il lume fievole della coscienza;
la cosa singolare che ricordo
è che in quella sorta di coma
pre-mortale mi pareva di udire
i mitici Giudici dei Mari,
che dolenti per la morte dell’Albatro
discutessero fra loro se la pena
da me patita fosse sufficiente
a dar soddisfazione allo Spirito
venuto dal lontano Polo Sud,
sicché potesse ritornare in pace
al suo grande reame di ghiaccio.
A dire il vero mi pareva di udire
due voci aleggiare nel sogno:
<E’ proprio lui? – diceva quella più severa –
è proprio questo l’infame peccatore
per la cui salvezza Gesù
inutilmente morì sulla Croce?
è proprio questo l’uomo con la balestra
e un’incredibile ferocia nel cuore
che uccise quell’Albatro innocente?>
Ma l’altra voce con tono più indulgente
diceva <il pover’uomo ha già pagato,
la prima parte della dura pena
per l’assassinio del povero Albatro,
così ora quello Spirito offeso
può tornarsene in pace al suo Regno;
ma sui Codici del Mare sta scritto
che il Peccatore deve ancora soffrire
la parte più dura della pena:
quella senza fine del rimorso,
lunga quanto la sua lunga vita
di testimonio eternamente errante>.
Questa fu la terribile sentenza,
e subito la nave fu percorsa
da un fremito che ne attraversò
da prua a poppa sordamente le viscere
e poi, come un cavallo scalpitante
liberato finalmente dal morso,
fece un balzo così alto e improvviso
che il sangue mi salì alla testa
e mi fece risvegliare dal coma,
ma la nave già fuggiva alla cieca
per ignote distese di oceano
come un cavallo più veloce del vento.

Parte sesta

La nave addirittura volava
sul mare fermo senza un filo d’aria
ed io che forse ero ancora stordito
dal mio sonno pre-mortale, sopportavo
senza danno anche l’estrema velocità
impressa dalle Forze Soprannaturali,
poiché l’acqua miracolosamente
senza un’onda, una scossa, né un tremito
si fendeva davanti alla prua
e poi subito a poppa si richiudeva
senza fare rumore e senza fare
sul mare neppure una scia.
Ma anche quella folle velocità
andò scemando, e mentre a poco a poco
riacquistavo la ragione apprendevo
che purtroppo la prima condanna
non era stata ancora condonata
e avrei dovuto ancora sorbire
l’ultima goccia dell’amaro calice.
Era infatti una placida notte
di luna piena, e quell’amara goccia
fu dover rivedere i miei morti
che riuniti sul ponte mi fissavano
come gelide statue di pietra
con gli occhi orribilmente scintillanti
alla luce impietosa della luna;
l’orrore che avevano patito
trasudava dagli sguardi colmi d’odio,
così che non potevo più distogliere
i miei occhi dai loro, né volgerli
con devozione al cielo per pregare.

Infine anche quella dolorosa
prima condanna parve espiata
poiché cominciai a respirare
un’aria nuova, quasi di lontani
venti primaverili; capii allora
che la crudele maledizione degli uomini
e il suo incantesimo erano caduti;
potevo infatti per la prima volta
contemplare con letizia il cielo
e l’azzurra distesa del mare,
seppure fossi ancora un po’ turbato
da quanto era successo; mi sentivo
infatti come il povero viandante
solo in una strada deserta
terrorizzato per quanto ha passato,
che essendosi girato una volta
per guardare dietro di sé
affretta il passo senza più voltarsi
temendo di essere raggiunto
dall’ombra minacciosa del Male.

Ma spirava ormai da Scirocco
una vera brezza marina
che seguiva il volo di uccelli
migranti forse da terre non lontane,
e malgrado i passati terrori
sembrava volermi donare
un propizio benvenuto, per la grazia
con cui mi scompigliava i capelli
e carezzava gentilmente le guance.
Anche la nave spinta velocemente
da quel vento leggero sembrava
inseguire sull’onda un suo sogno,
tanto a lungo accarezzato nelle ore
del dolore e della solitudine,
di rivedere il paese natio.

E una notte fu certo il buon Dio
a farmi dono di quello che vidi,
ma che stentai a credere perfino
strizzando al massimo gli occhi
sulla linea lontanissima dell’orizzonte:
non potevo sbagliare, era la luce
appena percettibile d’un faro,
che di solito è aiuto ai naviganti
che cercano terra; ma la luce
diveniva a mano a mano più distinta
finché quando giunsi a poche miglia
la riconobbi e benedissi il Cielo
ch’era stato così generoso,
perché era proprio la luce del mio faro!
Quando poi fui in vista della terra,
ecco – dissi riconoscendoli uno a uno –
il promontorio, la collina, la baia,
le care luci del vecchio paese!
E proprio quando la nave dolcemente
entrava nella rada del porto
io piangendo pregai volto al cielo
che il Signore mi svegliasse dal sogno,
o mi facesse dormire per sempre.
La rada invece era vera e reale,
chiara e limpida come un cristallo
per la luce che spandeva la luna,
mentre il biancore della Chiesa sulla rocca
sormontando dall’alto ogni altra cosa
sembrava splendere più luminosa
di qualunque altra stella del cielo.

La baia era chiara e silenziosa
quando gli spiriti dei poveri compagni,
che dal cielo seguivano con ansia
il cammino della loro nave,
vennero pietosamente a riprendersi
i propri lividi corpi di morti
che ancora giacevano sul ponte.
Che visione! ogni singolo uomo
che prima era steso senza vita
– lo giuro sulla Santa Croce
e sulla santa Resurrezione della Carne –
ora era in piedi avvolto di luce,
e tutti insieme facevano ressa
sulla prua salutando con la mano
come d’uso fra la gente di mare
per segnalare ai fratelli di terra
ch’essi stavano tornando finalmente
sani e salvi al grembo della Madre
da cui erano un giorno partiti
per il penoso viaggio della vita.
Ebbi un piccolo grido di gioia
quando udii il familiare rumore
di remi che cauti s’avvicinavano,
e il gagliardo richiamo del Pilota
che con la sua scialuppa di servizio
era pronto ad accostarsi alla nave
per guidarla sicura fino in porto.
Mai potrò dimenticare quel volto
generoso di uomo di mare
scurito dagli anni e dal sale,
sempre vigile ai bisogni dei naviganti;
è un caro ricordo che mai
nessuna traversia potrà incrinare.
Ma con lui c’era un’altra persona,
che riconobbi dalla dolce voce
e che mi diede ancora più conforto:
era il saggio Eremita, che da sempre
vive in preghiera nel fitto dei boschi
insieme alle fiere selvagge
con le quali divide con amore
il suo cibo, e mansuete ai suoi piedi
gli leccano le mani; ora anch’io
osai sperare nella sua pietà,
che lavasse le mie mani dal sangue
che le macchiava, seppure già sapessi
la mia ultima giusta condanna
a dovere errare in eterno
col mio inestinguibile rimorso.

Parte settima

Il sapiente Eremita abita un bosco
che scende fino al mare; egli parla
con voce pacata e non disdegna
di conversare amabilmente con gli uomini
che vengono da mari lontani.
Di primo mattino e di sera
egli suole inginocchiarsi per pregare
sul folto muschio che come un cuscino
ricopre il ceppo d’una quercia millenaria,
e a questo luogo il Pilota con rispetto
aveva accostato la barca
per far salire il saggio Eremita.
Udii che ora ragionavano stupiti
della nave, e il Pilota diceva:
<è strano: dove sono finiti
tutti quegli uomini che si sporgevano
dalla prua della nave circonfusi
di luce celestiale e salutavano
parenti e amici accalcati sul molo?>
L’Eremita allora disse ch’erano Angeli
e che certo s’eran già involati
dove il Cielo, ch’è colmo d’Amore,
li attendeva. Poi volto lo sguardo
alla nave aggiunse <guarda, Pilota,
come il ponte in così poco tempo
s’è già deformato e contorto
e il marciume ha divorato il fasciame;
guarda le vele, come sembrano scheletri
pendenti in un lugubre bosco
abbandonato certo da Dio
come covo del Male; facilmente
vi posso immaginare anche il gufo
intento nel buio a uno spietato
gioco sanguinario di agguati,
o il lupo nascosto fra i cespugli
che divora l’agnello alla madre>.

<Mio Dio, mi fai paura! – urlò il Pilota –
sembra l’abisso spaventoso dell’Inferno>.
Ma il santo Eremita disse <orsù,
fatti coraggio, vai avanti, accòstati
all’infelice nave dei Risorti,
ché siamo qui per conoscere il Vero
di questa fosca storia di mare>.
Il Pilota allora si decise
ad accostare la barca alla murata,
mentr’io muto e tremebondo attendevo
ciò che il destino avrebbe fatto accadere;
ma appena le fu sotto e leggermente
la urtò solo col bordo della barca,
si udì provenire dai gorghi
un rombo orrendo che squassò per molte miglia
ed infiniti echi dai monti
l’aria della baia, poi la nave
a poco a poco affondò con la poppa
mentre dal fondo saliva gorgogliando
il fragore d’una lotta spaventosa
per la Vita contro la Morte.
Per un’ultima volta fu scossa
come un fuscello dalla Forza Misteriosa,
poi la povera creatura come un piombo
scomparve totalmente nei flutti
che ancora ribollivano della rada.

Infine soltanto il mio corpo
rimase a galleggiare in mezzo al mare
stordito dal pauroso cataclisma,
ed avevo l’aspetto ripugnante
d’un annegato che dopo troppo tempo
fosse stato pietosamente ripescato.
Tuttavia mi risvegliai stranito
anche da quel sogno funesto,
miracolosamente salvo
dentro la barca vuota del Pilota,
che stava ancora roteando nel gorgo
provocato dalla nave che affondava.

Quando tutto il ribollio del mare
fu placato regnò rassicurante
un vero nuovo sublime silenzio
e allora anch’io conobbi finalmente
la pace dello spirito, privilegio
dei pentiti e degli uomini buoni.
Mi feci dunque coraggio e presi i remi
per lasciare alle mie spalle per sempre
il luogo del sinistro affondamento;
così, a forza di braccia raggiunsi
il mio paese e la mia gente, e finalmente
potei toccare dopo tanto mare
la terraferma; laggiù ad aspettarmi
c’era in ansia anche il buon Eremita,
che angosciato aveva vissuto
la fine sovrumana della nave
e ora inginocchiato pregava
per l’anima del Pilota scomparso.
<Oh, confessami, confessami, sant’uomo>
supplicai affinché mi giudicasse
e mi desse anche l’ultima e più dura
penitenza che potesse redimermi.
L’Eremita con le lacrime agli occhi
si fece in fronte il segno della Croce
e disse <rispondi ti prego
a questa sola domanda: che specie
di uomo vuoi essere ora
che il tuo destino t’è stato assegnato?>

In quell’istante vidi chiaramente
nella mia ottenebrata coscienza
la luce del Vero, e sopraffatto
da una dolorosa valanga
di tormenti fui indotto a confessare
la terribile storia vissuta
dalla nave: la feroce uccisione
dell’Albatro, la giusta persecuzione
degli immortali dèmomi marini,
le morti strazianti dei compagni.
Così venni finalmente assolto,
ma solo per il sangue innocente
che avevo versato; non fui certo
liberato dal peso del rimorso,
che può nascere solo dal cuore.
Da allora il tormento del rimorso
mi costringe a narrare in eterno
la mia infame storia di spettri;
similmente all’ombra della notte
che attraversa i paesi della Terra
oscurandoli, così di terra in terra
vado errando portando dovunque
l’Ombra di cui sono prigioniero,
e come un cane che punta la sua preda
stranamente ho il potere di riconoscere
l’uomo destinato ad ascoltarmi.

Ma ora vedo, gentile Convitato,
che la casa della festa di nozze
trabocca di ospiti e schiamazzi,
mentre all’ombra d’una pergola la sposa
attende quietamente lo sposo
con le damigelle che liete
le suonano e cantano imenei.
Sento anche la campana della Chiesa
che chiama al vespro e invita a pregare,
e ora che conosci la mia storia
sai già quanto a lungo la mia anima
sia rimasta senza Dio in un oceano
senza confini in acerba solitudine;
ora quindi mi sarebbe più caro
andare tutti quanti in chiesa
piuttosto che a una frivola festa:
sarà bello stare tutti insieme
uniti nella preghiera a intercedere
per i peccati di coloro che non sanno,
ma che certo in fondo al cuore conservano
ancora una fiammella d’amore.
Poi io me ne andrò per il mondo
ad annunciare la presenza di Dio
in tutte le cose del Creato,
anche le più piccole. Ricorda
che buon cristiano è soltanto colui
che dà amore a tutte le creature,
agli uomini come agli uccelli,
e tutti fummo un giorno creati
a immagine e somiglianza di Dio>.

Ora il vecchio Marinaio è stanco,
non ha più l’occhio acceso e se ne va
per la sua strada senza fine; ma il giovane
non va più alla festa di nozze;
toccato da quelle parole,
torna a casa dagli affetti più cari.
L’indomani s’alzerà di buon mattino
forse un po’ triste ma certo più saggio,
e sarà un nuovo splendido giorno.

  Torna su
libri
CONTATTI