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PAVANA PER UNA MADRE DEFUNTA
Appunti per una storia naturale della morte
La prima edizione di Pavana per una madre defunta è uscita nel 1990 per i tipi della Nuova Compagnia Editrice, Forlì, con una nota illustrativa di Lucio Zaniboni. Per questa nuova edizione il poema è stato completamente rielaborato.
Questo libro è stato scritto quando il declino di mia madre ne annunciava già la morte imminente (avvenuta in effetti nel 1991) ed era impossibile, nell’assistenza quotidiana alla sua persona, non confrontarsi con l’idea e la realtà della morte. Perciò il colloquio con la salma della madre - di cui si parla in questo libro - non è reale, ma immaginario, ed è lo spunto non solo per mie ricordanze infantili, ma soprattutto per una lunga riflessione sull’origine e natura biologica della morte e sulle sue finalità nel disegno dell'universo.
Questo grigio corpo di vecchia
che sembra un uccello impagliato
vestito con l’abito della domenica,
questo povero corpo che galleggia
tristemente sul fiume della Creazione
come una delle tante carogne
che vissero un istante nel mondo,
un giorno appartenne a una madre
che ormai più nessuno ricorda.
L’hanno chiusa tutta sola con la Morte
senza ch’io potessi aiutarla;
ma un giorno è stata anche grande e forte,
è stata la mia casa di carne
ed ora fisso sbigottito il vuoto:
chi mai potrà ora più guarirmi
dall’antica ferita originaria
con cui nacqui e che ancora mi spinge
a perdermi nel seno d’ogni femmina
per ritrovare il respiro di quel ventre
che m’aveva gelosamente nutrito,
ma che un giorno funesto della vita
m’ha gettato nel gelo della terra
senza un perché, e fu la prima volta
che fui solo con l'anima orfana.
Mia povera, vecchia, buona madre,
perché non trattenesti la mia anima
ben chiusa nella tana del tuo ventre,
avvolta dal respiro del tuo cuore,
anche ribellandoti a Dio?
perché m’abbandonasti in questo luogo
tormentato da grida e rovine
e dalla caccia spietata dei lupi,
perché non hai difeso tuo figlio
quando Dio ti comandò di scacciare
dal tuo utero un'inerme creatura
che ancora non aveva gustato
il frutto terribile della conoscenza,
perché non l’hai protetto col tuo amore
dalla pena del peccato originale,
dal piangere per tutta la vita
il giardino incantato del tuo ventre?
Io ero una piccola vela
ignara degli oceani del mondo
e solcavo fiducioso e benedetto
solo il lago felice del tuo amnio
popolato di pesci gentili
e appena increspato dall'alito
del tuo mite sovrano respiro.
Attraverso il tuo ventre mi pioveva
in onde ovattate di silenzio
la pallida placida luce
di un mondo misterioso e lontanissimo;
io non sapevo ancora che nel fondo
così dolce di quel lago i tuoi organi
come grasse carpe nel fango
brucassero la materia maligna
dei budelli, non sapevo che anch’io
mi rotolassi acquattato con loro
nella melma di fogne uterine
succhiandoti il sangue con cieca
voracia animalesca; quando fu
che désti finalmente un’anima
al mio triste mucchio di cellule
brulicanti come vermi nella tua pancia?
Ben presto imparai ad esser topo
e a roderti la docile carne
per scavarmi caparbio la mia nicchia
e suggere i tuoi succhi nutritivi,
calciarti ed insultarti e poi nascondermi
al caldo della tana per dormire
soddisfatto come un grasso coccodrillo;
ma tu, ch’eri venduta a Dio,
godevi di dolore ad ogni calcio
e piangendo e ridendo fra le lacrime
sempre benedicevi cristianamente
quell’omuncolo frutto del tuo ventre
e il nobile destino del tuo alvo
prescelto come umile strumento
da un cieco imperscrutabile Dio.
Ma allora perché disturbavi
i miei pigri sonni d’anfibio
acquattato nel fondo del mio stagno
con i tristi rumori del tuo ventre,
i borborigmi, gli ingorghi, i boati
delle tue troppo avide digestioni,
i tuoi sconci sospiri, le grida
di orgasmi ed amplessi impudichi?
Nel bunker profondo del tuo corpo
che difendevi con le unghie e con i denti
credevo proteggessi dalle insidie
soltanto i gioiosi godimenti
delle mie piccole innocue masturbazioni;
fu un triste giorno quello in cui capii
che davi invece libero corso
a ben altri sfrenati godimenti,
che intrecciavi invasata le tue membra
col mio acerrimo rivale usurpatore;
permettevi a quel tizzone d’inferno
che tentasse pure di uccidermi
con i colpi d’ariete e lo stupro
del suo enorme pene mostruoso,
che nel delirio oltraggioso del più forte
mi gettava in faccia il suo seme.
Fu lo schiaffo d’un padrone e predatore,
fu lo stupro che costrinse la mia anima
a nascere con l’ira del più debole,
come inerme coniglio snidato
dai tormenti dei cani cacciatori.
Io credevo allora di abitare
un universo buono e senza macchia;
ancora non vedevo le stelle
che senza posa fuggono in cielo
per non morire fra le spire del Chaos,
né le rive infelici del mondo
tormentate dai marosi e frugate
dalla voce inquisitrice di Dio.
Fu il comando imperioso del tuo utero
o l’insano furore della Vita,
a indurre quell’omuncolo a violare
le colonne d’Ercole dell’utero
e a sfidare gli oceani di un mondo
minaccioso, i sargassi che affioravano
dagli abissi limacciosi di serpenti?
O fu forse per l’ansia del Divino,
che lasciai quella casa incantata
di suoni e di silenzi
in cui leccavo con la piccola bocca
solo il miele del Bene dell’universo
che filtrava dai buchi socchiusi
dei tuoi occhi? Era ancora lontana
l’insaziabile violenza dei potenti,
la morte, il male, il dolore;
dimmi che sei senza colpa,
che fu solo la Natura matrigna
e il disegno perverso dei geni
signori e padroni del tuo corpo,
ciò che infine mi strappò da quell’Eden
mettendo a ferro e fuoco la mia vita
e rendendomi brutalmente consapevole
del Male e della Morte, facendomi
perfino dubitare del tuo amore.
Non fummo dunque mai figli di Dio?
solo rospi incautamente ingoiati
da madri inesperte ed ingenue
e chiusi da Natura matrigna
nella triste prigione dorata
dell’utero, in cui essi si dibattono
con le bocche tappate sadicamente
come pesci nel liquido amniotico?
soltanto bubboni che devono
squarciarsi per liberarsi dal male
in un fiotto disgustoso di pus?
fu in questo miserabile modo,
per la follia di ciechi meccanismi
che crudelmente t’incalzavano col dolore,
che anche tu m’hai cacato senz’amore
con un osceno urlo liberatorio
in mezzo al deserto del mondo
come un duro escremento fecale,
un’opera imperfetta del Maligno
mischiata ad altre laide deiezioni?
Dei tuoi fieri cromosomi
dovevo essere il fiero portatore
e i miei geni la somma universale
di divine congiunzioni di astri
e sapienti eredità millenarie;
il mio Ego nel tripudio dell’evoluzione
doveva essere il Prescelto, l’Embrione
concepito in un’estasi d’amore,
la splendida creatura di Dio
adornata di candidi nastri
per le nozze felici con la vita.
Ma quando finalmente nacqui
alla fioca luce di giorni
e di notti tristemente umane,
il tuo terribile urlo generatore
non fu quello squarcio di nubi
che doveva mostrarci l’amore
di miriadi di benevoli stelle,
ma il rifiuto del tuo ventre, lo schiaffo
ad un ego rotolato nel mondo
prigioniero d’un corpo già morto
poiché tu lo lasciasti scannare
dal male, dall’odio, dalla guerra,
dal coltello spietato della solitudine;
quando nacqui alla vita fu la Morte
la sposa e nutrice che incontrai,
ed io così piccolo e nudo
ho dovuto succhiare dalla poppa
con un urlo di rabbia e timore
l’acido latte della solitudine.
E' così che i ventri rigonfi
mostruosamente semoventi delle femmine
partoriscono con grande dolore
sulla buia superficie dei pianeti:
un pietoso lacerante muggito
sale senza nome alle stelle
mentre il ventre si libera dai vermi
per far sì che si spandano nel mondo
ad infestare i mari e le pianure
e ad insozzare di sangue la terra
con la selvaggia voluttà dei ratti
finalmente liberati dalle chiaviche.
Per quale sofisticato mistero
in tanto mare di Male originario
m’è toccata un’anima in sorte
così pura e fragile che trema
ad ogni passo per la sua salvezza?
In realtà questi figli che sembrano
amarti con le piccole anime
e poi malvagiamente ti divorano
sono alieni invasori del tuo ventre,
tumori che strabuzzano il tuo corpo
e marchiano a fuoco il tuo spirito;
tu cerchi debolmente di difenderti
dal lento efferato assassinio
rifiutandoli e perfino negandoli,
ma essi petulanti s’attaccano
dovunque con le unghie e con i denti,
alle pocce, al marsupio, alle budelle,
e se li scacci tornano come mosche
per godere e succhiare la tua roba
come grassi tenaci parassiti
che t’hanno saldamente in pugno.
Ma arriva anche il magico giorno
della tua voluttuosa vendetta
e allora li strappi con la forza
ai loro trasognati godimenti,
li costringi fra i lamenti ad esser uomini,
vittime od eroi sacrificali,
li getti nel fiume della vita
proprio quando sembrano godersi
i sospirati bei voli nuziali
e già sai che sono senza speranza
perché presto annegheranno come gattini.
Eppure ero un lembo di carne
viva e rossa del tuo corpo caldo,
ero pieno del tuo sangue e del tuo amore;
anche quando m’hai estruso a forza
dal tuo ventre, io avevo la certezza
d’esser tuo soltanto tuo per sempre,
e tu mia soltanto mia, eri la Mamma,
anche se in un corpo separato
con un tuo proprio tubo digerente
e tuoi propri individuali pensieri;
ed io potevo sempre ritornare,
e vagire, vagire, per chiedere
senza vergogna; quella fossa oscenamente
aperta nella terra, mia rivale
e bocca famelica del mondo,
non t’aveva ancora inghiottita
come una delle tante del pianeta.
Dov’è ora un albero uguale
sulla faccia della terra, dove mai
nasconderemo questa vita monca,
riceveremo soccorso e pietà,
scorderemo abbracciati alle sue fronde
d’esser solo grasso nutrimento,
carne umana per le turpi digestioni
d’un buco nero che ci succhia dall’universo?
Tu eri la femmina eterna
che risorge dal Chaos sempre uguale,
eri Dio, eri l'Alfa, eri l'Omega
delle nostre minuscole vite
ed io non avevo sentore
d’esser maschio e aver natura opposta
alla tua carne dolce come il miele,
non sapevo che la forza inesorabile
degli istinti nel mio corpo d’infante
m’avrebbe fatto tuo rivale e nemico,
m’avrebbe crudelmente esiliato
nella triste casa degli uomini
e fatto anche di me uno sciacallo,
un maschio vanitoso e petulante
predatore insaziabile di femmine,
seme di violenza e di guerre;
io che forse volevo soltanto
essere semplice femmina
come te con la tua carne e il tuo utero,
esistere senza domande
fra le pieghe più nascoste del tuo cuore,
restare alle origini del mondo
avvolto nel tuo grasso protettivo
in pace con la vita e con gli uomini.
E invece fui lupo, costretto
a fiutare e snidare le femmine
come prede, a rubarne con la forza
o con l’esca un fuggevole amore,
a ferirne l’imene per piegare
col sangue le riottose alla Legge,
al sacrosanto diritto dei maschi
di fecondarne la carne e lo spirito.
Fu solo l’ingiusta tua scelta
a plasmare la mia anima ignara,
fosti tu, a sradicare il mio sesso
dal tuo così semplice e giusto,
a educarmi alle arti dei maschi,
al ripugnante esercizio della ragione
che adorna di bandiere la violenza
e gela ogni moto del cuore.
Eppure nel profondo del cuore
era pronto a sgorgare come un fiume
l’amore che rompe ogni argine
e poteva salvarmi dal Male.
Ben sapevi nella tua saggezza
che lungo l’aspra via per esser maschi
seminiamo solo seme maligno
e raccogliamo soltanto la gloria
impudica di uccidere e distruggere,
sapevi ch’è un gene maligno
quello che di maschio in maschio
di guerra in guerra e poi di morte in morte
si perpetua generando deserti;
sapevi ch’è corona di spine
esser condannati a travestirci
coi disperati contrassegni della forza,
gli elmi, le spade, le corazze
e gli usberghi della fede terrifica.
Chi mai potrà ora aiutarci,
quale dolce figlia di donna,
a spezzare la catena che ci obbliga
ad essere i caparbi ed arroganti
macchinosi negatori del Bene?
Anche questo giovane guerriero
fu fiero di potere esercitare
ciò che gli uomini hanno sempre chiamato
virilità, ma mai altro non era
che tormentare altre timide bambine
per imparare il mestiere di violare
come i grandi, avviluppando come il ragno
con l’insinuante membro grasse femmine
e poi succhiarne gli umori nutritivi
con torva voluttà; fosti tu,
col tuo complice silenzio lo strumento
dell’infame investitura, il sovrano
che osservava dall’alto del suo trono
il minuscolo pene senza colpa
crescere veloce e prepotente
sotto l’egida del popolo e di Dio.
Ancora oggi, che lo spirito vigile
ha vinto la materia e finalmente
ha domato l’infido serpente,
mi sgomenta la terribile potenza
del dio Priapo, che veste la ragione
soltanto di odio e di armi;
mi sgomentano i suoi mille tentacoli
che sempre rispuntano uguali
in mille germogli di corpi
nati alla speranza e alla vita,
ma in realtà ridotti solo a ciechi
caduchi produttori di seme,
strumenti d’una vana, inesausta,
testarda propagazione della specie.
Eppure allora frugavo
con perversa timorosa voluttà
nei lubrìchi labirinti della mente
dove si nascondono le voglie;
sapevo certamente ch’era empia
la voglia tormentosa di congiungere
il mio piccolo sesso col tuo
che immaginavo languire silenzioso
nel suo splendido castello turrito,
ma giuro che per sempre la murai
fra i torbidi sogni degli infanti,
che come farfalle notturne
svaniscono al sorgere dell’alba.
Allora non potevo immaginarti
bambina col capo canuto
rannicchiata in un raggio di sole
e bisognosa d’esser sostenuta
ad ogni passo sull’orlo d’una Morte
che concupiva il tuo debole corpo;
non potevo immaginare il vecchio sesso
ingiallito come foglia d’autunno
da accudire con amore mentre “mamma”
era l’unica antica parola,
l’ultima a morire nella tua gola,
che riuscivi a richiamare dalla memoria
per invocare la salvezza dal figlio
chino sul tuo capezzale.
Ora che la turpe vecchiezza
t’ha seccato ogni parvenza gentile
di femmina, ti sei pudicamente
richiusa nella tua conchiglia
e più nulla trapela di te
dal luogo del tuo nuovo riposo.
Ma ancora conservo nel cuore
il ricordo di una calda estate
e di un altro mitico riposo
cui t’eri abbandonata come a un volo
di dolcissime api pellegrine;
ero infante, e per la prima volta
ti vidi come cosa da rubare;
il tuo m’apparve come il sonno d’un drago
senza più creste né lingue di fuoco,
un guerriero finalmente senz’armi
e facile da vincere; fu allora
che nutrii il temerario disegno
di sfidare i tuoi recessi più gelosi
e strisciai di nascosto al tuo letto
avvampando di brama e timore
per violare col mio sguardo l’Arca
che nascondeva il mistero dell’Inferno.
Ma tremante caddi subito abbagliato
alla vista inebriante e terrifica
d’una magica nera foresta,
che mi parve luccicare di rugiada
e pullulare di cupidi gnomi.
Oh, il tuo terribile sesso
che immaginavo ingordamente turgido
protendersi tutto per me
così grasso, forte, succoso,
ma da mille veli nascosto
all’umana e divina esplorazione
come un umido fiore velenoso
che bruciava la mia mente insonne
coi tormenti di peccati tenebrosi!
come a lungo nutrì la fantasia,
sopravvivendo insidioso nei pensieri
ben oltre la sua inquieta giovinezza
ed oltre lo sfacelo del corpo,
ancora oggi molestando la memoria
coi timori di chi perversamente
violò con desideri proibiti
i più antichi imperiosi comandamenti!
Dio t’aveva creato con argilla
per essere sapiente custode
dell’antico richiamo della specie,
lascivo vaso per accogliere i frutti
benedetti della fecondazione;
ma che cos’altro sapevi tu dei maschi,
del loro volto più infame e segreto,
se ne avevi soltanto sfiorato
lo sfuggente imponderabile sesso?
cosa mai sapevi di quel nugolo
di esseri vanesi e petulanti
sempre vigili all’odore della femmina,
e pur trepidi, delicati, sensibili
come alati formiconi dalle fragili
erezioni incapaci di far fronte
al morso vorace e possessivo
della vulva, e che sempre si ritirano
entro i loro castelli di vetro
regni della ragione metafisica,
fortezze che credono inviolabili
e dove possono ancora indisturbati
fantasticare di eroiche sortite
destinate a spegnere la fame
impudica dell’eterno Femminino?
Mai neanche una volta m’hai detto
del destino cui andavo incontro,
dello scotto fatale che si paga
per godere gli speciali privilegi
dell’inutile specie dei maschi;
non facesti mai nulla per distogliermi
dai dèmoni incalzanti che ci gettano
storditi dal furore dei profumi
nelle trappole antiche dell’Eros;
ci lasciasti pigramente soccombere
con la cieca voluttà dei moribondi
come inette sbigottite falene
fra le torbide fauci lascive
di grasse vagine carnivore
dopo il breve minuto di furore
quando il compito sacro è finito.
Eppure avevo avuto dal tuo ventre
pieno di grazia la promessa di salvezza,
la certezza di esistere per sempre
proprio io col mio ego tanto amato,
ed eri tu in questa terra senza Dio
la sola per proteggermi dal Male,
la grande Madre padrona della vita
e alla cui volontà abbandonarsi
fiduciosi con l’anima e il corpo.
La tua bellezza si spandeva al sole
come indomita dea vigile e pronta
a colpire il cuore del Male,
ma anche a nutrirci di baci;
eri faro nelle nostre notti
di timidi topi incerti
e gettavi una luce sicura
nei meandri smarrevoli delle menti
a noi stessi sconosciute e così piene
d’incantevoli emozioni ma sempre
vulnerabili come il ventre d’un verme.
A quella luce bramosi si accorreva
sciamando al tuo trono come api
stordite dal latteo turgore
della poppa e prostrati a leccare
la mano generosa del padrone.
Come dunque hai potuto scacciarmi
dal tuo seno come un cane rognoso
e spaventato, mia impietosa Giustiziera,
quel giorno che scopristi sdegnata
le soavi solitarie masturbazioni
cui m’ero abbandonato inebriato
dai profumi assordanti di primavera.
Brucia ancora lo strappo dell’anima
quando tu m’allontanasti dal tuo cuore,
e forse fu con sadica voluttà
che torturasti il mio timido ego
bisognoso d’imparare i primi ardori;
la tua non era certo l’ira
d’una madre timorata di Dio,
era solo la caverna del tuo sesso
ancora giovane e fremente di vedova
dove i lupi ululavano di notte
e che volevi far tacere ad ogni costo
con preghiere ed immagini sacre.
Molti anni dovettero passare
per ritrovare ambedue ciò che togliesti,
a me le nozze fiduciose con la Vita
e a te le nozze serene con la Morte,
quella pace dei sensi e dell’anima
che avevi tanto a lungo invocato.
Forse mai potrò risarcire
la ferita che allora mi facesti
con terribile rabbia missionaria;
volevi annichilirmi anche il seme
con il cilicio del tuo casto esempio,
con le oscure minacce, i sacramenti,
i terrori tenebrosi della Chiesa:
dicevi che il vizio solitario
fa diventare il midollo come acqua,
ma era mio soltanto mio quel seme
che tapino urgeva dal pene
ogni volta che il sublime incantesimo
d’un battito d’ali di farfalle
lo faceva diventare grosso e duro
e fremeva per dare giusto corso
ai prepotenti fini della specie;
ed infine travolse ogni diga,
ogni freno ogni inutile orpello,
e come un torrente impetuoso
che schizza fra le rocce alto nei cieli
giunse irrefrenabile alla foce
incontro alla sua verità,
quella che tu ed i tuoi preti
troppo a lungo gli avevate nascosto.
Ora sbigottito contemplo
ciò che resta delle tue parole,
delle tue carni soffici e bianche,
dell’immortale splendore della poppa
che traboccava accecante dalla veste,
e del tuo sesso così a lungo sognato
che un giorno fu mia casa e mio sangue;
ora da quel tubo vuoto
più non cola l’arcano segno rosso
che ti rendeva femmina e madre,
ma solo il tuo sfacelo corporale
e i gemiti dei mostri della notte.
Ricordo ancora quanto fui turbato
dai truci misteri divini
il giorno che giocando m’accorsi
del segno indelebile di sangue
che spuntava da quel tuo recesso
così gelosamente custodito
e riempiva oscenamente di sé
le valli e le montagne; non sapevo
quale fosse la ferita sacrilega
e chi avesse potuto far male
a colei ch’era ancella di Dio
e sua dolce ed onesta Vestale,
ma fu la prima volta che il Male
m’entrò come un serpe nella mente,
la prima volta che attonito appresi
che il mondo degli uomini nasconde
la vergogna e il timore fra le rose,
come fa con il sangue e il dolore.
Ora l'unico mio triste privilegio
è il lunghissimo tempo necessario
a frugare fra le viscere del Male,
a speculare e interrogare le stelle
sui destini della vita e dell'anima,
a registrare nei libri il tuo declino
per misurare con strumenti di scienza
il mistero insondabile della morte
e potere imparare a far mia
anche l'ultima più oscena devastazione;
tu che eri così grande e forte,
e poi diventasti così piccola
da potersi tenere in una mano;
tu che eri signora e padrona,
e diventasti preda d’ogni istinto,
aggrappata con le unghie a ogni respiro;
tu che eri sapiente regina,
e diventasti schiava del tuo cibo
e dei tuoi umilianti escrementi;
e poi fosti bestia;
e poi semplice arbusto;
e poi soltanto polvere e terra.
Eppure, quando stavi caparbiamente
combattendo corpo a corpo coi diavoli
che avevano imperioso possesso
delle viscere ed uscivano terrifici
da tutti gli orifizi del tuo corpo
con l’anima, il fiato, l’urina,
e rientravano arroganti a piacimento
massacrando e saccheggiando il tuo spirito
come orda crudele di barbari,
anche tu riuscivi talvolta
a vincere qualche agra battaglia,
a sconfiggere i dannati e a costringerli
alla fuga, e allora ridevi
battendo le mani in trionfo
con le lacrime agli occhi, felice
d’aver fatto finalmente la cacca.
Erano certo bagliori
che annunciavano una vita metafisica
quelli che talvolta s’accendevano
nelle cupe notti del mondo
quando Morte già stendeva le sue tele
sulle povere cose della tua stanza,
mentre fuori una creatura serotina
solitaria e ostinata come la luna
da un suo nido d’amore fra gli alberi
inondava la squallida camera
con un canto solenne di nozze
che tutto illuminava, nel tanfo
dove stava consumandosi il tuo male;
io allora drizzavo l’orecchio,
per un attimo dimentico di te,
ebbro mi lasciavo penetrare
dalla lama luccicante di quel canto
suggendo ad una ad una ogni goccia
del bagliore divino che colava
soltanto per me dalla notte.
Era certo un richiamo di Dio
ridisceso sul male del mondo
con l’aspetto di sapiente uccello
e melodiosi suoni materiali
per aiutare i miei sensi a riconoscerlo
poi che io ero un cieco dello spirito;
ma tu me lo strappavi e soffocavi
con le tue strida oscenamente adunche
rese aguzze dall’opera del Demonio
e trascinavi con te nel tuo pozzo.
Io sapevo che era il Demonio
ad aggrapparsi pesante al mio braccio
con le tue dita, le tue unghie, la bestiale
volontà che solo il Male possiede
di vivere e perpetuarsi; mi tirava
col peso di tutto il tuo corpo
e la forza impudica della Morte
nell’abisso senza più ritorno
della tua mente; a quali ancore di salvezza,
a quali isole benefiche dell’universo
avrei potuto afferrarmi, quale Dio
avrei potuto ancora invocare
che mi salvasse da quel precipizio,
rendesse inoffensivi i tuoi tentacoli,
t’illuminasse ancora col Bene?
Eppure talvolta accadeva,
anche quando la tua carne fu vinta
e nel gran letto restarono fedeli
solo ancora le funzioni elementari
sopravvissute al naufragio come tavole
galleggianti che ormai non cercavi
neanche più d’afferrare, accadeva
quell’evento che faceva sgorgare
calde lacrime anche dai muri:
sembrava che cercassi la mia mano
come un cane bisognoso di carezze
o come un bimbo timoroso del chirurgo;
e mai saprò se attraverso quel contatto
cercassi ancora disperatamente
nel vuoto della mente brandelli
consapevoli di nomi e di ricordi,
forse anche di emozioni umane,
o se fossero nient’altro che gelidi
sconvolgimenti del tessuto cerebrale
che l’anima nel suo lento ritrarsi
abbandonava ormai alla deriva,
scariche elettriche, meri automatismi,
ultimi resti d’una vita vegetale
forse ancora nutrita per inerzia
da un’arteria che stanca trascinava
la sua inutile funzione idraulica
nella rozza materia già corrotta,
prima di lasciarla per sempre
all’abbraccio del silenzio sacrificale.
Pensavo di poter contemplare
con la fredda ragione scientifica
il nobile mistero dell'anima
durante il sereno e ordinato
dissolversi dell'autocoscienza,
questa goffa e vana regina
che crede sovrastare la materia,
ed è solo una minuscola scintilla
conservata con dolore dagli uomini
per rischiarare il loro nero universo.
Invece fui incapace di capire,
dovetti bere giorno dopo giorno
fino all’ultima goccia di fiele
la laida disgregazione corporale,
i circuiti che saltano uno a uno
nei tessuti cerebrali devastati,
spezzoni di ricordi che rotolano
con loro nel fiume dei detriti;
vuotai tutto il calice amaro
d’una vita che lenta s’atrofizza
fino a un piccolo mondo di vagiti,
sospiri, mugolii; c’era ancora
nella vuota prigione senza finestre
di quel povero esausto burattino
un’anima a tirare i pochi fili
così fiochi dei moti e dei suoni?
L’agonia non fu una porta aperta
a un vento nuovo di mondi ultraterreni,
né una mite messaggera di Dio
che annuncia l’estinzione dignitosa
della coscienza, né un’asettica operazione
condotta con perizia da una Morte
rapida, pietosa, salvifica,
col bisturi che affonda preciso
seguendo il suo giusto disegno
per estrarre l’anima dalla mente
prima dell’irreversibile corruzione.
Invece s’avventò come un gatto
per ghermire l’io di quel corpo
e fu ancora una volta l’antica
ripugnante rappresentazione del Mistero,
l’osceno prorompere dai visceri
di un io che si difende come un leone
dall’assedio del cielo e della terra
alleati nel sopruso di costringere
quell’io ribelle asserragliato dentro il corpo
a morire finalmente, proprio mentre
più sperava nella vita eterna.
Ancora qualche fioco lamento
di cellule superstiti sepolte
in un oscuro meandro cerebrale
che solo lo schermo impassibile
d’una macchina offre a minuziose
osservazioni di zelanti dottori,
ferventi Cavalieri della Morte;
poi gli ultimi neuroni ormai sfiniti,
abbandonati al loro destino
anche dallo spirito che pure
caparbiamente vi aveva abitato
non furono che resti di naufragi,
carogne alla deriva d’un fiume
giunto finalmente alla foce;
e sopra ogni cosa allora
si stese il silenzio del mare,
un mattino ch’esso apparve da lontano
fra le nebbie dissolte dal sole.
Come fu, che in quel mare benigno
già placato da ogni tempesta
“mamma!” fu l’ultima parola
uscita da non so quale organo,
ma che udii trapassare la materia,
quasi un lungo grido soprannaturale
che fora il muro impenetrabile dell’eternità?
Quando l’urlo dell’assedio si spense,
arrivarono i sapienti Professori
impettiti nel cappello a cilindro
di ligi e coscienziosi controllori
d’ogni traccia impercettibile d’anima
che ancora eventualmente s’annidasse
nelle vuote caverne del corpo;
poi quei lugubri uccelli becchini
dell’ oscura umanità dolorante
che Dio abbandona a cosmici terrori
e a sogni crudeli di salvezza,
giusto per conforto mi dissero
paternamente battendomi la spalla:
“Fortunata la Sua signora madre,
che neanche s’è accorta di sparire
per sempre dalla faccia del mondo”.
Nessuno ha mai osato descriverci
senza rassicuranti eufemismi
il mistero che accade in quel tunnel
che appartiene soltanto alla Morte
e che porta a un buco nero dell’universo;
ignudi come Dio ci ha fatti,
ci apre con dolore questo corpo
per strapparci e annichilirci l’anima;
ma tutti sanno che il cuore non si ferma
senza inverecondi mugolii
incapaci di sgorgare dalla gola,
tutti sanno che l’anima costretta
con la forza ad entrare nel gran buco
non ha ceduto senza esser brutalmente
strappata dalla carne, e qui si compie
l’estremo disumano sopruso
che un dio possa fare sull’Io.
La gelida trasmutazione dell’Io
in Non-Io è finalmente compiuta.
Era questo l’atto impudico
atteso con ansia e timore,
il singolare fenomeno naturale
che da sempre accade senza pompa
sotto cieli stellati impassibili
ed è chiamato erroneamente “separazione
dell’anima dal corpo”; forse impiega
soltanto un istante, o forse invece
un tempo incalcolabile di secoli,
non si possono misurare neppure
con gli strumenti più sofisticati
i tempi di un’anima che si contrae
irresistibilmente nel Nulla
fino a svanire nell’anti-materia,
ben oltre il diaframma percepibile
che separa l’universo da Dio;
ed ora galleggia ignuda,
invisibile, ignorata da tutti;
se pure ancora esiste, se essa
una volta sfiorata dal Male
non s’è autodistrutta, poiché il Male
non può esistere se ancora qualche raggio
lascia intravedere da un buco
il meccanismo abbacinante di Dio,
dove neanche un granello di sabbia
può intralciare gli ingranaggi della Perfezione.
Ma il mistero della vita continua
anche dopo di te e di me
nei budelli segreti della casa
dove vanno asciugandosi le lacrime
e le lugubri libagioni dei parenti,
gli ignari schiamazzi dei bimbi
e le cupe inquietudini dei vecchi.
Il ventre delle nostre case
è quello d’una mite fattrice
che tutto accoglie, macina, ricicla
nel tubo digerente delle stanze
e dà sempre alla luce nuovi figli,
mille piccoli topi stupiti
che cresciuti a dismisura poi fuggono
disperdendosi per i prati del mondo.
Io solo, ora, resto a vegliare
col lumino davanti a un’immagine
le presenze dei morti che implorano
questa casa così vuota ma che un giorno
fu nido d’anatroccoli impazienti
e poi rifugio cui tornare da lontano
per dei cigni con le ali spezzate.
Ora resto in silenzio a vegliare
accanto ai nostri morti che non parlano,
mentre tutte le caverne della notte
poco a poco si aprono e gli oggetti
esitanti riprendono a muoversi
fra le anime inquiete dei vivi
per farsi lascivamente toccare,
il tavolo, le pentole vuote
appese al muro, gli orologi fermi,
il ritratto dei nonni da sposi,
ognuno con fame d’amore
e la sua piccola speranza, ma le porte
sono chiuse al mondo degli uomini
col pesante coperchio d’un sarcofago;
ad essi è dato solo di udire
il proprio passo fra i vuoti rimbombi
e i lamenti delle stanze, soli echi
d’una casa lasciata morire
che a poco a poco più non vede e più non sente
ed è solo lo specchio di noi
ma che io ho timore di guardare.
Oh, mio amore lontano,
che stasera m’aspettavi fra le braccia
calde e vive del tuo letto umano,
chiamami, ti prego,
avvolgi di forti pensieri
la mia debolezza, fai presto,
prima ch’essa cada prigioniera
di un sonno sinistro pieno d’ombre.
Ho voluto contemplare con amore
anche l’agonia della casa,
quasi fosse una tenera creatura
che a fatica nascesse a un’altra vita;
ma ora non sono più capace
di ricordare né di dare alle parole
un senso umano, palpo inutilmente
povere crisalidi di parole
per riempirle di vita reale,
ma sembrano farfalle sbiadite
infilzate sottovetro in un museo.
Intanto il vero flusso dell’Essere
zampilla fra le mani inafferrabile;
senza che noi ce ne accorgiamo
ci bagna i corpi, scorre per nutrire
la sostanza del mondo, si cela
anche nell’agonia d’una casa
abbandonata a morire senza cure
e che anela soltanto a riposare.
Ancora per molte stagioni,
ovunque, risuonò la tua voce
amplificata dagli echi delle stanze,
scoppiata negli orti e nei campi,
filtrata nel fitto dei boschi
coi raggi del sole mattutino;
udii la terribile voce
rimandata dagli echi delle colline
che ancora mugghiava invocando
la sua mamma, e sembrava provenire
dalle tenebre d’un corpo non ancora
del tutto morto, dove fra le ossa
i cani ululavano la loro pena.
Ma davvero era solo la materia
d’un corpo morto quello fra le zolle
ignudo contro i diavoli e le larve
che senza tregua lo tritavano instancabili
con bestiali mandibole? O eri tu,
proprio tu con la tua anima integra
ma senza scampo rifugiata ormai
negli ultimi cunicoli della carne
e che ancora implorava l’aiuto
ch’io non ero capace di darle,
la luce, la salvezza dell’io
sull'orlo inevitabile del precipizio?
Non è stato umanamente possibile
togliere le tracce indelebili
dalla vecchia poltrona in cui covasti
così a lungo la Morte, né dai muri,
dagli oggetti sopra cui posasti
le tue dita malferme ma vogliose,
dalle foto di famiglia, dalle lettere
toccate e ritoccate che i tuoi occhi
quasi ciechi avevano consunto.
Il sarcofago ove avevi sepolto
fin da viva la tua vita mediocre
amputata dal flusso del mondo
era un greve sudario di cose
polverose, unte dal tuo sebo
e dalla bava del tuo fiato ansimante,
un funebre coperchio spalmato
come mastice dal sonno dei millenni
sulla bocca forse infelice
del tuo piccolo anemico universo
come quella d’un feto imbalsamato
gelosamente custodito ma mai nato.
Ancora odora di spezie e d’incensi,
di profumi malati e soffocanti;
è l’odore dolciastro della Morte,
che aderisce immortale a tutti i corpi
come colla; solo il fuoco appiccato
dalle furie scatenate del mondo
alle luride case dei morti,
che tutto mondi con un rogo disperato
d’uomini e cose, potrebbe cancellarlo
dalla faccia della terra dove languono
ancora i timorosi superstiti.
Era la Morte Nera
il fiore nauseabondo corrotto
dal lento disfacimento del tuo corpo
fra i velluti e le ombre della casa;
ed io subito la riconobbi
dall’odore inconfondibile che un giorno
m’aveva avvolto, bambino curioso,
appena aperta una terribile scatola
legata accuratamente con lo spago
certo dalle mani tue devote
e che avevi nascosto in certi armadi
per segreti amorosi colloqui
ultraterreni, ma che a me incuteva
solo il sacro timore dei fantasmi.
Ivi adunate con ordine
non erano preziose reliquie
ma laidi strumenti segreti,
testimoni della ingiusta e disperata
morte del padre mio, di cui tanto
mi narrasti ma che sempre come un dio
mi fu lontano: una lugubre accozzaglia
di tubi e di clisteri, storte e unguenti
e adunche misteriose siringhe,
sante spade ancora insanguinate
con cui i chirurghi contesero una vita
al Demonio, e filosofiche ampolle
per richiamare l’alito vitale
ai neri morti con potenti incantesimi
e alchemiche manipolazioni della Natura.
Quella morte fu la turpe opera
delle forze malefiche della materia
e maledetta la porta che condusse
i miei occhi sacrileghi a scrutare
dentro un pozzo che la tua pietà
aveva da tempo murato,
ma che ancora esalava dagl’inferi
acre odore di droghe e di zolfo.
Ora un’ansia incontenibile mi spinge
a scrutare e palpare il mio corpo
per sorprendere il male ai primi segni,
impedire, ostacolare, e se possibile
estirpare la crescita infame
maliarda e schifosa della Morte,
che simile a un bel fungo maligno
dopo pioggia benefica e ingannevole
può spuntare beffarda e inaspettata,
o silenziosa come un gatto a due teste
può insinuarsi nel giaciglio dove noi
come ignari agnelli di Dio
sull’ara sacrificale del mondo
dormiamo un sonno nero irto di sogni,
abbandonati anima e corpo al Mostro
che con calma e bestiale determinazione
ha già iniziato a divorarci il ventre.
La tua morte fu il magico specchio
in cui spiare la mia prossima immagine
di vittima sacrificale; ora so
che da tempo portavo con me
oltre alle ferite dell’anima
anche i sordidi segni della vecchiaia,
il naso oscenamente bitorzoluto
ed i miopi occhi lacrimosi,
il ventre molle e grasso ricadente
a coprire le tristi vergogne
e la pelle flaccida e avvizzita
malamente nascosta dalle vesti.
Ora l’Uomo è costretto con la forza
ad uscire dal proprio nascondiglio
e a farsi umiliare la carne
proprio da Colui che una volta
l’aveva incoronato re
ma solo per la festa degli amori
e poi l’ha escluso dalla vita eterna
perché portava annidato nel ventre
lo scorpione del Male Originario.
Ancora quest’ultimo mostro
dovremo uccidere con l’arma della ragione
prima di vedere all’orizzonte
dalla nostra navicella incerta
la libertà dei mari, ora preclusa
da invalicabili Colonne d’Ercole.
Dunque anche il mio tempo è scaduto,
è svanita l’illusione giovanile
di non essere toccati dalla Morte;
ora anch’io sono un sordido vecchio,
così improvvisamente vecchio
come improvvisamente ero nato;
anch’io uno dei tanti del pianeta
costretto a diventare adulto,
a strappare il nutrimento alla terra,
e a cui i figli ruberanno il posto,
ruberanno la casa e la roba
e forse gli daranno un letto,
forse anche, bontà loro, nutriranno
ed anche a lui netteranno le vergogne;
ma tutto senz’amore e senza odio,
soltanto per semplice usanza
del reciproco dare ed avere;
e poi disperderanno la sua anima
insieme ai suoi abiti riciclati
e poi gettati, alle foto ingiallite
e poi dimenticate nelle soffitte.
E poi più niente, saranno solo terra,
forme anonime inorganiche dei deserti.
Stupidi, fragili, mortali animali
che con sussiego si dicono ragionevoli
solo perché forgiano il mondo
a loro triste immagine e somiglianza
con i poveri escrementi della mente!
Credono di essere immortali
e sono invece carne impura da macello;
brulicano sulla crosta della terra
come stuoli di formiche indaffarate
e Qualcuno gli distrugge i formicai
con la furia delle guerre e della fame
proprio quando sono più ebbri
nelle fregole d’amore: un buco nero
nascosto fra le stelle li risucchia
ed essi se ne escono dal mondo
diligenti ed ordinati come pecore
senza neanche sapere che la morte
è il castigo per essere nati.
Ma come hai potuto celarmi
la vera natura del tuo Dio,
quello che tu con l’astuzia
o la forza imperiosa della fede
riuscisti a farmi credere buono
e invece è un colossale parassita
che ci succhia il midollo dalle ossa
e abbandona le sue turpi deiezioni
su casuali inospitali nebulose?
Meritava il nome di Dio
questo impasto di Bene e di Male
che forse è un’infelice creatura
anche lei abortita dal Chaos,
una succube laida malformazione
d’un universo più grande di lui?
Eppure ai vecchi inganni della Chiesa
t’aggrappasti con le unghie e con i denti
come nave ad un’ancora di salvezza:
l’amore casto nel letto benedetto,
l’opera automatica dell’utero
che sacrosanto appartiene solo a Dio,
l’attesa fiduciosa della morte
ed il lungo congiungimento con Lui.
Ma intanto si bruciava in cenere
la tua ingenua fatica terrena;
per credere a un terribile Molok,
poco a poco hai mutilato lo spirito
e accettato con cristiana rassegnazione
d’esser solo dell’anonima carne,
solo uno dei mille rami secchi
d’una arcana proteiforme padrona
che chiamano evoluzione biologica.
A capo chino sopra la tua polvere
ora sarò il solo a ricordarti,
ma anch’io soltanto per poco,
solo il tempo d’un fiato d’insetto
poco prima d’entrare come te
nel buio sepolcro del Tempo.
Perdona, se talvolta ho creduto
che non avessi più nulla di umano,
fossi solo una macchina generatrice
alla fine svuotata anche dell’anima,
quasi scroto spremuto dall’impresa
di generarmi e seccato come crisalide
appesa tristemente a un ramo
dopo la gloriosa metamorfosi
e il suo primo volo nuziale.
Ma ora son tornato a ringraziarti
per quell’urlo antico di dolore
che dà luce a tutto l’universo
e m’ha fatto l’insetto perfetto
che ora può volare nel mondo
forte del tuo seme e del tuo sangue
col compito prezioso di trasmettere
a dei figli la vita delle cellule
che mi hai consegnato, la memoria
d’una specie che così caparbiamente
sopravvive alla morte e al dolore.
Da quando la minuscola tua anima
t’è sfuggita con un lieve sospiro,
ho scelto un verdeggiante giardino
ove ancora potrai rannicchiarti
nascosta da Sorella Terra
e non avere vergogna per lo scempio
che t’han fatto dell’antica bellezza.
Così io potrò ricordarti
e vegliarti all’ombra d’un fico,
tu che ora sei stanca e indifesa
ma un giorno m’hai tanto vegliato,
fatto grande e giusto e fino all’ultimo
nutrito di forti pensieri.
Forse qui saranno così buoni
da permetterti di stare un po’ seduta
a conversare coi fiori e coi gatti
come una gentile vecchissima
ancora vezzosa signora
che sorbisce la sua tazza di tè.
Non passerà davvero molto tempo,
perché gli errori divini ed umani
che adesso ci assediano la vita
portino le nubi dei diluvi
a cadere orribilmente sul mondo
rimescolando i cieli e le terre
e gli uomini sventurati in un singhiozzo.
Che sarà di questi nostri corpi
quando non saranno più pianti,
dimenticati perfino da Dio
nelle tombe scoperchiate e profanate
dalle orde selvagge di barbari
tracimanti da oscuri continenti?
che sarà di quelle bianche ossa
senza nome frugate e scomposte
dal raspare randagio dei cani
nel silenzio delle notti eterne
echeggianti di latrati ringhiosi,
e poi disperse, calcinate dal sole
e dai venti furiosi delle pietraie,
prima d’esser ricoperte per sempre
dalla polvere dei deserti e dei millenni?
E che sarà di queste nostre anime
così impudicamente amate
e così accuratamente confidate
a questi bei sarcofaghi di parole
un giorno sperate indistruttibili,
ma che già sono antiquate e incomprensibili?
chi mai leggerà questi patetici
messaggi cartacei ormai disfatti
dentro cripte muffose e inaccessibili,
se anche quei pochi prescelti,
conservati in memorie magnetiche
per durare nell’eternità,
più nessuno vorrà richiamare
da quei tetri sepolcri di idee
per udirne ancora la voce;
se già oggi i nostri figli, tristi tronchi
vegetativi affamati di piaceri,
più non sanno decifrare le parole
accarezzate dall’amore d’una penna
né udire le recondite armonie
sprigionate dalle tombe degli avi?
chi mai potrà far risuonare
ancora la voce degli organi
nel silenzio di cattedrali sommerse
per destare anche solo per poco
le nostre anime dal sonno di pietra?
Oggi il vespro mi coglie qui solo,
a guardia di cimiteri abbandonati
in un’ora tanto cara agli dei
e ancora ti ricordo seduta
davanti al nostro pane e al nostro vino
al convito dei miei giovani pensieri,
proprio qui a questo tavolo vecchissimo
che ha rughe e cicatrici quasi umane
e ha conosciuto così tante generazioni
scomparse senza un segno senza un grido
dalla labile memoria degli uomini.
Mi figuro con rispetto e tenerezza
i loro atti semplici e antichi
come in questo pasto frugale:
gli stessi gesti, lo stesso misurato
pensieroso masticare, lo stesso
abbandono all’abbraccio del sonno
nel gran letto di ferro da sposi,
ara del mondo e culla della vita;
è appena ieri
che anche tu me l’hai consegnato
vuoto e già pronto ad accogliermi,
ma in esso io m’appresto a subire
dal buio delle notti che fuggono
insonne soltanto l’abbraccio
velenoso del dubbio e del timore.
Chissà per quanta gente è stato bara
quest’umile letto di ferro,
nave sfortunata di fantasmi
dove adesso giaccio anch’io con la mia sposa,
incapace d’attendere composto
con dignità l’assalto della Morte;
e allora nella stretta del tempo,
come un ragno che ripara la sua tela,
faccio anch’io quell’amore disperato
che si vuole da me, la sola cosa
che conosco per farla retrocedere;
la mia femmina carne della mia carne
partorirà con dolore i miei figli,
che come me si crederanno immortali
e col loro breve sorso di vita
a loro volta se ne andranno ignari
a riempire le fosse e i colombai,
forse perfino contenti
dei piaceri che la sorte gli ha dato.
Ma come può far retrocedere la Morte
trapiantare questi fragili geni
d’una vita che sfugge a noi stessi
dentro un utero anch’esso di carne
con un atto che chiamiamo d’amore
e che crea altri involucri di carne
senza neanche la speranza che contengano
un’anima a noi somigliante?
Essi sono soltanto degli estranei
che mai ci apparterranno, altri infelici
obbligati a portarci qualche fiore
il giorno fatidico dei morti
e destinati a scomparire anch’essi
nel vorace pozzo delle specie
popolato da ossa senz’anima
mischiate coi sassi e la terra.
A che vale la speranza metafisica
di tutto quest’amore corporale,
a che vale penetrare nell’utero
col disegno disperato del paguro
che per feroce volontà di sopravvivere
si nasconde in quella tana vuota
sperando di sottrarsi al suo destino;
a che vale illudersi che Iddio
possa dimenticarsi di noi
perché abbiamo cercato di nasconderci
e farci piccoli piccoli come feti
dentro il ventre generoso d’una sposa,
se anch’essa pende in questo mondo come noi
goffa e inutile dall’alto d’una forca?
Alla fine del tuo viaggio terreno
un liquame brulicante di organismi
ha invaso brutalmente come barbari
il tuo povero involucro vinto;
non t’aveva detto il tuo Dio
quali forme mostruose di vita
la tua umana fatica terrena
avrebbe generato e nutrito?
quale folla di esseri microscopici,
indistruttibili robot che sopravvivono
ad ogni catastrofe umana,
sia il capolavoro della Morte
che nulla spreca per creare nuova vita?
Io m’affanno ancora a frugare
in questo tuo miserabile liquame
non per ritrovare vane forme
del tuo volto, ormai putrida nave
disfattasi solcando la vita,
ma l’alchemica essenza dell’anima
che tanto fieramente coltivasti
perché centro del mondo - dicevi –
scintilla del tuo Dio. Dove sta ora
quell’anima un giorno così bella
per tutti i suoi casti pensieri,
in quali postriboli del corpo
l’avevi nascosta da vecchia,
a quali inaccessibili cellule
stava disperatamente attaccata
con le deboli barbe caduche?
Dopo che la vita fu costretta
a lasciare il tuo corpo in un sospiro,
sul fondo della fossa che t’accolse
non riuscii a vedere nient’altro
che fango e detriti, non un piccolo
fenomeno metafisico, un segno
che fosse credibile prova
d’una sorta di vita incorporea,
un indizio di salvezza eterna;
nessun’altra forma di te
restava in quel sordido liquame
se non un ribollire di larve,
gli aneliti di mosche carnarie
a consumare osceni congiungimenti
per deporre sul fondo delle tombe
le uova tanto ambite della Morte.
Parlavi con ardore d’un Dio vero
e d’un Diavolo dal piede ritorto
come i preti t’avevano insegnato,
ma in bocca avevi solo verità
da fumetti; tu dell'Essere Assoluto
avevi solo carnasciali immaginette
con la barba, mentre Lui beffardo
eludeva la tua goffa fantasia
come oggi elude ed umilia
anche la mia sete di conoscenza.
Eppure in qualche luogo dell’universo
dev’esserci una piccola fessura
per spiarne i lucenti meccanismi,
una via forse ancora mai percorsa
dalla mente eternamente prigioniera
delle proprie digestioni corporali
e incapace di forare con un grido
il cieco e duro guscio dei sensi
per cogliere almeno un bagliore
del geloso mondo fetale
che pulsa nel ventre di Dio.
Quel tuo Dio l’ho cercato scrupolosamente
ovunque nel mondo, ogni volta
tentando di squarciare il velo
delle opache apparenze, spiando
nei mondi microscopici più arcani
o volgendo alle stelle tutti i sensi
protesi a raccogliere i più deboli
e lontani messaggi dell’etere;
ma il mio cuore era sempre infestato
dalle fate morgane della ragione,
dagl’inutili orpelli d’una scienza
affogata in miriadi di sfuggenti
sfaccettate rappresentazioni del Vero
che ad ogni passo si moltiplicavano
ognuna più verosimile dell’altra
ma tutte sconsolatamente false;
poiché Lui resta sempre invisibile
ai nostri occhi di porci senz’ali
privi della grazia d’intendere.
Ma la sete di Dio non si spegne
con l’agra sconfitta della ragione;
alzo al cielo i miei occhi di talpa
e sento sulla pelle il risucchio
delle stelle, il buco nero nel cui gorgo
esse tutto aspirano e digeriscono
eternamente immobili come la Morte.
Sono folle d’orrore, mi ritraggo
come punto da un serpe, oh se potessi
nascondere ancora il mio io
nella tana accogliente del tuo ventre,
ora così buio di speranza!
Adesso non mi resta che guardare
il tuo povero teschio di madre
inverecondamente ignudo e assorto
in quello strano impenetrabile stupore
che noi chiamiamo morte. Esso un giorno
fu causa del male più antico:
il nostro inconsapevole nascere
e il nostro consapevole morire;
ora guata fissamente solo il vuoto
e non è mai da alcuna luce illuminato.
Tu invece t’aspettavi la quiete,
l’indolore rinascita dell’anima
nel gran seno di luce dell’Essere,
e affidasti il tuo io appena trepido
al benefico inganno. Ma noi,
che vogliamo vedere tutto in faccia,
perfino l’agonia della mente
torturata dal timore del Nulla
mentre si estingue con l’io,
da millenni ci conducono al supplizio
con le strida scomposte dei maiali
o il silenzio dei re; nessun filosofo
è mai riuscito ad anestetizzarci
dall’orrore che quest’io così forte,
unico baluardo al non-essere,
possa rompersi come un palloncino
gonfio solo d’aria e di deliri;
è la sordida beffa del tuo Dio
a farcelo apparire immortale
per diritto naturale inalienabile
proprio quando viene abbandonato
da un bambino stanco di giocare.
Ma l’orrore della morte dell’io
è privilegio dell’uomo consapevole,
bestia eletta a regnare sulle bestie
nonostante che il cancro della coscienza
dalla culla gli consumi la mente
prigioniera come un topo nella trappola
più crudele del mondo; è un orrore
che nel silenzio dilatato delle notti
quando più egli s’appresta al riposo
diventa rogo, ondata gigantesca
che travolge ogni altro pensiero
soffocando la sua bocca timorosa
perfino di gridare. Anche stanotte
con lo strido terribile di un’aquila
ci ha scovati rannicchiati nel letto,
s’è avventato su di noi nel dormiveglia,
ci ha frugato la mente col becco
lasciandoci intatta la ragione.
Perché finalmente non ci uccide?
Ma tu, nella notte dei diavoli,
con la grigia coerenza dei giusti
non ti sei rannicchiata fra le mie braccia
per non essere accecata dall’orrore;
non hai cercato l’acqua benedetta
della pietà, non m’hai preso la mano
per leccare ancora qualche goccia
di un ultimo amoroso lenimento;
hai atteso composta il carnefice
e gli hai lasciato strapparti uno ad uno
gli involucri dell’io senza un grido,
col pudore solitario degli umili,
ignorando se esista la Luce
nel silenzio dove ti portavano.
O t’avevano talmente sfinito
ogni forza, ogni senso, ogni nervo,
da lasciarti come un corpo vegetale
in balìa dei trastulli insensati
d’un Dio incapace d’intendere e volere?
Forse sul tuo orrore più cocente
è calato il pietoso sbigottito
anestetico sopore degli esausti;
forse i vividi sogni multicolori
che una provvida fata Morgana
dona agli assetati viaggiatori
nel deserto dell’estrema vecchiezza
scacciarono i pensieri ripugnanti
mentre Morte scavava come un tarlo
la sua tana nella carne del tuo io;
così ti rapì dolcemente
l’incantesimo d’un raggio di sole
mentre lo seguivi tra i fiori
come docile farfalla stupita.
Avrà anche di noi Iddio pietà,
che con la mente ancora desta e vigile
non cessiamo di spiare in quest’involucro
i precari, malfermi, timorosi,
ad ogni passo sempre più faticosi,
palpiti e gemiti del cuore?
Indegna d’un Dio
questa sofisticata invenzione
dell’Io Autocosciente: sembra fatto
di rozzi meccanismi imprecisi,
arrestabili da un granello di polvere;
e invece conosce il miracolo
di pensare se stesso, è il motore
assolutamente immobile
dei più esaltanti voli cerebrali,
capace come un dio magicamente
di staccarsi dal mondo materiale.
Sembra dunque la macchina di un Io
programmato per l’eterna conservazione,
cresciuto perfino al calore
d’una breve illusione d’amore;
e invece ogni volta è partorito
e abbandonato sgomento ed incredulo
proprio a quel guasto dell’anima
per cui nessun robot fu programmato:
essere orrendamente consapevole
della propria ineluttabile distruzione.
Non so se quest’Io fu soltanto
invenzione involontaria dell’evoluzione,
o se fu il meccanismo più perfetto
che la vita potesse produrre,
il pretenzioso tentativo di sottomettere
il grandissimo universo al dominio
di un unico Io Assoluto;
ma perché volerlo annichilire
fino a un grumo di atomi d’argilla
in quello stesso Eden che lo crebbe?
quale cinico, vandalico Ideatore
poté imporre così strambe e contorte
leggi fisiche al tessuto della vita,
dare un’Anima e un Io alla materia
e subito distruggerla nel tritacarne
dell’universo? quali cromosomi
potevano portarsi nel seno
un gene talmente maligno
da distruggere perfino se stesso
vincendo l’orrore del Nulla?
Non fu dunque soltanto la pietà
di chi doveva ad ogni costo sopravviverti,
a cercare di nutrirti e conservarti
quando tutto il tuo essere caldo
di mamma con i palpiti e i respiri
così tenaci del cuore e delle viscere
veniva lentamente distrutto
proprio dal sopruso di Dio,
e infine umilmente si arrese
nascondendosi il viso col lenzuolo.
In verità noi t’abbiamo nutrito
come gracile piantina agonizzante
nella piccola serra fatata
di esorcismi e preziose sollecitudini
perché eri la forza dell’Io,
la cariatide, il gigante che reggeva
anche i nostri gracili organismi;
eri col tuo semplice esistere
la prova inconfutabile dell’Essere,
la bandiera dell’eroico soldato
cui stringersi incontro al nemico,
eri ciò che si deve assolutamente
conservare fino all’ultimo respiro
per scacciare l’orrore del Nulla,
come il lume solitario e disperato
perpetuamente acceso nei cimiteri;
e ti chiedo ancora perdono
per il nostro peccato d’egoismo.
Ma ti chiedo pure perdono
se da quando ho lasciato che buttassero
i tuoi amati resti in quella fossa
temo anch’io di ricevere del male
dalla collera invidiosa dei morti
e non oso più neanche invocare
la tua calda presenza, supplicarti
di darmi un segno, d’apparirmi accanto,
di guidarmi nella Casa delle Anime
per svelarmi il mistero della morte,
io che sono un cieco dello spirito
smarrito nei meandri della Scienza;
ora temo di aprire quell’Arca
perché temo di vedere il mondo vero,
ciò che mai fu mostrato ad occhio umano:
il nocciolo infuocato dell’universo,
la vista che impietrisce di Gorgone.
La Morte certamente non è mai
il sonno immaginato dai filosofi,
l’estinzione serena di un Io
stordito dall’attesa di morire
e incapace d’intendere e volere.
Come infatti potrebbe accadere
che anime inquiete di morti
talvolta si mostrino ai vivi
sfuggendo per un attimo al buio
terribile della non-esistenza,
mute reclamando pietà?
Dimmi, tu che sai: sono forse
vere anime intatte, sopravvissute
alle mortali dolorose cristallizzazioni
dei ghiacci siderali, sostanze
immateriali ma di veri individui
con i sensi ancora vigili scampate
per bizzarre mutazioni genetiche
o un guasto di fragili meccanismi
all’iter naturale della morte,
al lento inesauribile fiume
che sfocia nel sopore fetale
del grande sepolcro del cosmo?
Oppure le incerte figure
che talvolta occhieggiano mute
come insonni uccelli crepuscolari
pronti a svanire nel nulla
sono forse il prodotto accidentale
di tagli cesarei che Dio
fece ai ventri d’altri mondi paralleli
a quello conosciuto in cui viviamo
e da noi totalmente inconoscibili,
da cui Egli estrasse le anime
tremanti e infreddolite di defunti
che come delicati esseri alati
cercano rifugio da noi?
sarà mai concesso a noi impuri
d’afferrare quelle forme incorporee,
e almeno una volta scrutare
negli uteri dei mondi paralleli
che come madri invisibili ci assediano
per riprendere le loro creature
dalle ali ancora invischiate
nei fluidi d’altri spazi e d’altri tempi?
e tu, che non sei più, potrai mai essere
un giorno una di loro, potrò mai
senza tema toccarti, accarezzarti?
Ma forse il mistero mai violato
di quelle immateriali creature
è nel nido inaccessibile di neuroni
in cui vive asserragliato l’Io,
ch’è uso abbandonarsi sfrenatamente
a generare forme fantastiche,
talune col caro sembiante
dei nostri morti, vere fate Morgane
che ingannano la mente ed il cuore.
L’Io infatti è il nostro unico signore
che crea e distrugge a piacimento il mondo;
si erge incontrastato come un pene
che si masturba da solo finché esplode
in un orgasmo d’amore e di morte,
fungo atomico che eiacula il mondo
lasciando ricadere sulla terra
una nube di gemiti e di ombre,
lembi lacerati di anime
dalle forme appena conoscibili;
ed è forse il terrore di non-essere
che le fa scivolare sfuggenti
e lascive, bramose di toccare
e baciare i nostri corpi atterriti.
Ma chiunque esse siano, fluttuanti
simulacri generati dalla mente
o anime inquiete e sensibili
di nostri morti senza pace richiamate
dalla nostra struggente nostalgia,
esse paiono errare infelici
di mondo in mondo e giorno dopo giorno
pur di non spegnersi del tutto,
seminando il passaggio sulla Terra
di spoglie immateriali, di polveri
impalpabili come scie di comete.
Forse anch’esse furono ferite
come noi dalla madre e da Dio,
partorite ignude alle ortiche
da un destino impietoso come il nostro;
perché dunque ancora temere
queste nostre sorelle sfortunate,
volerle con brutali esorcismi
ancora ricacciare nelle tenebre
di un universo privo di speranza,
traboccanti d’amore condannarle
a un inesausto vagare in mondi vuoti
ogni giorno e ogni notte reclamando
pietà da un Dio che non risponde mai
e allora mendicando carezze
almeno dal mondo dei vivi;
perché abbandonarle un’altra volta
all’inedia della morte, al terribile
progressivo fatale raffreddamento
nei geli delle notti siderali?
Non poteva essere Dio
l’anonimo Massacratore Generale
di tutte quelle anime e quei corpi
consumati dal tritacarne dell’universo;
la Morte certamente nacque solo
per maligna generazione spontanea,
come quella dei vermi che proliferano
su carogne di uomini e topi
succhiandone tutta la materia
per creare altre forme di vita.
Essa dunque nacque dal nulla
come il mondo, la vita, forse Dio,
e divenne quel grande Parassita
che depone le uova nelle carni
degli increduli agnelli sacrificali,
che come tortore col cuore in tumulto
sbattendo disperatamente le ali
fra le sbarre della gabbia della ragione
si chiedono invano perché.
Forse germogliò come idea
nei meandri d’una Mente Creatrice
macchinosa e contorta, ancora incerta
sulla forma da dare ad un mondo
appena uscito dal buio del Chaos
con un errore nel meccanismo di creazione
e allora diede a tutti gli organismi
l’ordine di autodistruzione.
O forse fu soltanto una fatale
imperfezione della vita nascente
tutta intenta ad autocrearsi,
il peccato originale di molecole
incapaci di legarsi saldamente
per costruire indissolubili strutture
e che crearono invece molli aborti
di organismi votati alla morte.
Forse prima del peccato originale
erano delle umili molecole
che suggevano alla poppa di Dio
come api il gran dono di esistere
libere e senza condizioni;
non sapevano ancora che la morte
è il castigo per essersi unite
sfidando le leggi inderogabili
d’un mondo inorganico senz’anima.
La Morte: ecco
quest’inutile atto della vita,
corpo estraneo che s’insinua tetragono
e spietato come un palo nella carne
per uccidere l’anima con dolore,
e non si sa cos’è né donde viene;
si sa solo ch’è un sordo e inconsapevole
anelito che spinge magneticamente
per un’oscura colpa millenaria
tutto il popolo degli esseri viventi
verso il fine dell’autodistruzione,
come docile folla di topi
che si getta nei gorghi limacciosi
per seguire la dolce melodia
d’un impassibile Pifferaio Massacratore.
Spesso la Morte è visibile
come una sostanza reale,
densa, vischiosa, palpabile
sulla pelle dei malati come un unto,
questa Morte tuttavia immortale
che invade il nostro corpo materiale
e s’infiltra come muffa venefica
negli esausti tessuti imbevendoli
di potenti secrezioni maligne
fino alle radici dell’Io
ancora abbarbicate al proprio corpo
anche se disfatto dalla tabe;
è una lenta corruzione della carne
che esala dagli stanchi morituri
il suo acre odore indelebile
quando s’alzano a fatica dal giaciglio,
vestono malamente i loro stracci
e vanno tentennando alla finestra
per aspirare qualche sorso d’aria;
ma anche i gatti scansano le loro stanze
e gli uccelli cessano di cantare.
Infine quella muffa indistruttibile
uccide anche l’ego pensante:
penetra nel rifugio più nascosto
e lo strappa con tutte le sue barbe
stringendolo in una tela di ife
come il ragno che soffoca le prede
in un bozzolo di seta mortale.
Non risparmia neppure le madri,
che agitano appena le braccia
davanti ai nostri occhi sbigottiti
prima d’essere inghiottite dall’oceano;
invano tu cerchi di salvare
la tua piangendo lacrime di bimbo
e abbracciando il suo seno avvizzito
per trattenerla sull’orlo della morte;
non ti resta che cercare rifugio
col tuo piccolo pene spaventato
dentro il ventre d’un’altra creatura
dai floridi seni di femmina
piangendo come un bimbo disperato.
Forse capirai cos’è la morte,
proverai per un attimo l’estasi
di sentire estinguere il tuo io
in un ventre che ti sventra dolcemente;
vivrai la tua Piccola Morte
con un orgasmo tanto simile alla Grande.
Il mistero della vita e della morte
così indissolubilmente congiunte
è scritto nel giardino incantato
d’una dolce carne di femmina
che dalle ceneri della sua giovinezza
ogni volta rifiorisce inesausta
in mille altre giovani carni.
E’ in lei, che dall’alba del mondo
è nascosta gelosamente la memoria
di un mare illuminato dai millenni,
bagnato dai silenzi delle stelle
e visitato da lontane comete;
forse il germe della vita vagava
con loro per gli spazi del cosmo,
o forse le molecole erranti
nei mari più caldi del Pianeta
tentavano d’unirsi l’una all’altra
sotto il segno di Dio o dei fulmini
per creare dal nulla inorganico
il filamento d’un piccolo io
protetto da un po’ di materia;
fu così che l’Io si fece carne,
e Dio disse ch’era cosa buona.
L’inquieta materia sconvolta
dalle furie del mare primigenio
era un brodo brulicante di morte
cui invano dei grumi di molecole
tentavano ignudi di sfuggire
dentro nicchie ed anfratti delle rocce
o nelle melme calde ed oscure
di pozze riparate dai marosi.
Incapaci di durevole vita,
facevano e sfacevano continuamente
tra vita e morte una labile esistenza
fugace come dune dei deserti
che i venti senza sosta fanno nascere
e di nuovo morire.
Fu prescelto da Dio o dal Male
quel grumo di un Io vittorioso
che appena nato fu costretto a sopravvivere
nutrendosi crudelmente della carne
d’altri piccoli fratelli ed a difendersi
con terrifiche corazze irte d’aculei?
Quella carne sempre in guerra ribollì
di sangue, di grida, di abissi,
e fu la specie benedetta e maledetta,
non si sa con che scopo nell’universo,
di uomini armati soltanto
della piccola macchina della ragione;
ma questa crebbe e divenne l’arrogante
vitello d’oro d’una scienza elefantiaca
prigioniera d’un destino suicida,
adorata dentro lugubri palazzi
e più lugubri città di cemento
da una folla di topi di chiavica
intenti a fornicare; anche questa
crollerà come Sodoma e Gomorra,
come immenso mastodonte paralitico
inghiottito da un nuovo Diluvio
e dalla polvere infinita dei millenni.
Come mai quel grumo di geni
che era il primo Io del mondo
asserragliato nella navicella
d’un corpo che arrancava a fatica
fra i tormenti e le tempeste dell’oceano
non fece la scelta più semplice
e non crebbe tutto dentro la sua pelle
ingrassando a dismisura come enorme
unico corpo di individuo immortale,
che con la pletora vischiosa e sterminata
del suo straripante citoplasma
avrebbe potuto ricoprire
i territori del pianeta e del cosmo
come un grande impero centrale?
Invece stranamente si divise
in mille piccoli pavidi gnomi
ognuno dentro un corpo separato
e distinto, caduchi individui
che vivono soltanto per la morte
ma che instancabili proliferano come topi.
Chi fece la scelta fatale,
e perché fu quella che optò
per il pendolo perpetuo della vita,
e della morte che rinnova la vita?
chi impose ad ogni singolo individuo
appena estromesso dall’utero
di autodistruggersi e assumere
su di sé come agnello sacrificale
il peccato originario del Demiurgo?
Forse questo anelito di morte
che sacrifica i singoli individui
per poter ringiovanire la vita
fu l’orribile diabolica invenzione
di un’infelice materia vivente
cui l’assedio delle forze inorganiche
impedivano di crescere senza limite;
quindi i geni, vulnerabili creature
ma strenui conservatori di se stessi,
dovettero sottrarsi al pericolo
nascondendosi in piccoli corpi
di bestie che vivono continuamente
nel timore ma sempre son pronte
con le zanne o con le armi a difenderli
anche a costo della vita individuale.
Quando poi s’avvicina la vecchiaia
e il momento dell’autodistruzione,
essi devono subito liberarsi,
abbandonare la nave in pericolo,
e con un atto di bestiale eiaculazione
che a noi piace credere d’amore
uscire dal sacco del sesso
ignudi ed inermi alla ventura,
entrare nel corpo d’un figlio
cambiando quindi ospite e individuo
come cambia conchiglia il paguro
inseguito da Dio e dai predatori.
Tu madre mia
sei stata il paguro sfortunato
che aveva riposto i suoi geni
nell’infida conchiglia del mio corpo
così impotente a difenderti da Dio
e da te stessa, dal compiersi fatale
del tuo cieco anelito di morte.
Questa morte così inconcepibile
da mente umana fu dunque il castigo
per avere osato concepire
il progetto così raro d’una Vita
calda e buona nel gelo annichilente
degli spazi siderali: una sostanza
mai vista prima nel cuore della Terra
e che nessuno sa dire cosa sia
né donde venga, tranne ch’è portata
con gran pena da grembi di femmine
bisognose di credere all’amore
di maschi infidi dal labile sesso.
Eppure sempre nuovi grembi
si aprono per spargere altri frutti,
tanti piccoli io che galleggiano
avidi anch’essi d’amore
nell’oceano terribile del Chaos,
finché i venti sospingono anche loro
a morire sulle spiagge del mondo.
Ma in quale parte così sorda dell’universo,
da non udire neanche le urla
delle madri, ebbe origine il sopruso
di partorire con dolore, di subire
ogni volta il lacerarsi dell’utero
che invano s’era chiuso su se stesso
per proteggere dal Male i suoi figli?
come fu, che la vita del Pianeta
fu affidata così crudelmente
al dolore di quest’otre rigonfio
che si squarcia per lasciare sfuggire
solo insetti in delirio per oscuri
imperscrutabili voli nuziali
senza alcuna speranza di sopravvivere?
Il Demiurgo ha saputo nascondere
molto bene quest’infame dolore
nei piaceri vischiosi d’un sesso
che s’insinua dovunque furtivo
a dispetto dei cilici e castighi
inventati dal maschio padrone
per salvare la purezza delle copule.
Ecco cosa fu veramente
la grande evoluzione delle specie,
che nel suo viaggio di utero in utero
sanguinando ha schiacciato e mortificato
innocenti carnai d’uomini e bestie;
infine il premio dell’immane pena
fu l’ingombrante inutile coscienza,
che ogni volta in ogni uomo rinasce
ma solo per essere uccisa.
Eppure nel caos senza scopo
di questo incredibile universo
forse soltanto la Morte
è nata con un nobile disegno:
distruggere continuamente la Vita
perché la Vita possa rifiorire.
Fu lo stesso terribile gene
il lupo asserragliato nelle cellule
che per la propria egoistica conservazione
inventò la strategia ripugnante
della Morte inscritta nella carne
d’ogni singolo individuo; fu infatti
l’infinita replicazione degli individui
a dar vita ad un docile popolo
di succubi capri sacrificali,
economica carne da macello
destinata allo sterminio programmato
e automatico dei singoli, ove ognuno
è soltanto un povero insignificante
contenitore a perdere votato
finché vive a difendere i suoi geni.
Questi grassi ed astuti burattinai
se ne stanno invece caldi e nascosti
nell’effimero corpo della bestia
destinata a morire ma armata
di un vigile sesso sempre eretto
e pronto a propagare i padroni;
solo l’urlo di dolore del partorire
poteva infatti sottrarre i furbi geni
al fatale disfacimento del corpo
salvandoli in tempo dagli uteri
che li avevano portati come frutti
d’amorosi benedetti abbandoni.
Ma un giorno la vita cavernicola
così cieca e disperata delle bestie
ebbe in dono la luce forse inutile
ingombrante e dolorosa ma sublime
dell’autocoscienza; essa s’accese
per caso o per fatale necessità
d’un processo di molecole benedette
nei budelli delle notti cosmiche,
e fu un timido omuncolo uterino
che si contorse nel gelo terribile
sotto i raggi impietosi delle stelle;
era chiuso in un corpo mai visto
sulla vergine scena della Terra,
un vero accadimento termico
che si opponeva ad ogni legge fisica:
un sacco caldo di visceri pensanti
ricoperto di peli e tegumenti
per proteggere il nucleo ordinato
dell'Io e tenerlo separato dal Chaos.
Dapprima fu una sfida temeraria
fra essere e non essere, un insulto
alla torva strapotenza del Male;
ma quell’umile germe di pensiero
cresciuto fino a noi come coscienza
e speranza d’un Uomo migliore
ora è il nido maligno di un Io
ipertrofico e infelice solo dedito
a plasmare il Pianeta con la cieca
e feroce arroganza della ragione.
Ma cos'è veramente, madre,
quest’Io ch’è signore del mio corpo,
quest’ignudo prolungamento del tuo io
uscito affamato dal tuo ventre
con un goffo carapace semovente
che guata sbigottito il mondo?
e questo pauroso universo
popolato da tristi forme umane,
cos’è: sogno incubo allucinazione,
invenzione dell’Io che si specchia
soltanto su di sé come Narciso,
o il parto della mente oscura
d’un Dio burattinaio che governa?
siamo eredi di cellule vitali
giunte fino a noi con le comete
da pianeti remoti ed alieni,
oppure casuali corrugamenti
della bruta materia in forma d’uomini
fatti per scannarsi l’un l’altro
e lordarsi di sangue fratricida,
ma sempre rinascendo nei figli
come inestirpabile gramigna?
Eppure fu un impulso originario
ciò che spinse alla conquista dello spirito
quel piccolo grumo di molecole
attratto magneticamente dalla luce,
quando crebbe febbrilmente e fu verme,
e poi pesce, e poi rettile, e poi aquila,
e poi patì dopo ere interminabili
di sonno subumano della ragione
la nuova temeraria metamorfosi
d’un lampo di coltello nella mente
che si fece acuminata coscienza
ma che uccide lentamente di paura.
Eppure ha già stuprato le galassie
con macchine lanciate negli spazi,
e ancora sacrilega anela
a denudarle dai veli di polvere
e a squarciare le ultime tenebre
in un abbraccio possessivo e mortale
con l’Essere Supremo. Perché mai
quel mucchio di cellule inquiete
non fu pago dell’umile vita
toccatagli in sorte, perché volle
nutrire la follia di un’esiziale
perfezione, lui essere imperfetto
con le stigmate del peccato originale,
lui invasato di violenza e distruzione,
lui ch’è stato abbandonato anche da Dio
alla deriva di abissi stellari?
Fu aver mangiato di quel frutto proibito
che infranse il sigillo di Dio
sulle tane ove ignari animali
soffrivano onestamente la vita
e illuminò con la luce della coscienza
la mente del Nuovo Dannato.
Certo non fu grande gloria
per le umili ignare creature
che durante i millenni della Notte
avevano vegetato senz’anima
nelle infime pieghe del mondo
paghe solo d’amplessi bestiali
e buone ruminazioni di cibo:
la coscienza s’addice soltanto
agli esseri nobili e alati,
ai sistemi nervosi sensibili
fatti a somiglianza di Dio;
meglio sarebbe stato
se le semplici cieche creature
fossero rimaste senz’anima
nel fango intestinale del mondo
a ruminare pigre digestioni
col capo chino sotto il giogo di Dio.
Nessuna scienza partorita dalla mente,
così imperfetta perché sempre oscillante
fra emozioni ed arabeschi intellettivi,
potrà spiegarci l’ascesa della coscienza
su per l’erto carnaio di corpi
consumati e abbandonati ad esser polvere
dalla cieca volontà dell’evoluzione:
un’orribile montagna di ossa,
di rospi serpenti dinosauri
che lottarono senza quartiere
per nutrire il triste ventre dei figli
e che come farfalle della notte
si spensero all’alba del giorno.
Chi alitò, e per quale disegno
di quale mai vita grama sulla Terra,
in quelle piccole bocche di creta
se già dolce e buono era il sonno
che le nutriva accovacciate come feti
nel ventre profondissimo del mondo?
Oh infelice vulnerabile coscienza,
chiusa in questo fragile involucro
di ominide che striscia come un rettile
con gli occhi e la lingua sensibile
su di un mondo che si nega al Vero;
non sei più l’Amica Promessa
che tutto ci fa udire e vedere
distintamente in faccia, anche la Morte?
Da quando in uno slancio del Creato
che sembrava essere d’amore
siamo usciti dal regno delle bestie,
quest’organo ambiguo della gioia
e del dolore non fa che tormentare
il cervello per perdersi con lui
nella stessa sua fine corporale;
insonne malefica amica
che mai lasci il nostro debole fianco
anche a costo di morire anche tu
fra le stesse inaudite sofferenze!
Testimoni d’inutili terremoti
e immense catastrofi cosmiche,
siamo usciti dall’abbraccio del Tempo
come stanchi uccelli sbigottiti
dalle lunghe incerte migrazioni
per i mari del mondo e del cielo
fino ai più oscuri confini,
e siamo infine solo prigionieri
della morte con le nostre goffe ossa
di improbabile Homo Erectus
sepolte nel fango lunare
di pianure paludose pietrificate,
come spoglie di ere lontanissime.
Perché dibattersi ancora,
piangere d’orrore l’imminente
nostra fine, temere quelle stelle
cui ci unisce un uguale destino?
Fu già grande dono d’amore
se Qualcuno è venuto da oriente
per farci risplendere un poco
come effimere stelle cadenti.
Anche noi, oscuri fossili di dinosauri
fissati nella pietra fredda e informe,
saremo forse dissepolti un giorno
da spiriti di buona volontà?
Essi forse scopriranno le stigmate
di quel raro fenomeno prezioso,
quanto inutile e improbabile,
che fu la nostra vita di api
intente a fabbricare un mirabile
ordinato edificio di cellule
credendo fosse un solido diaframma
per separare l’ordine dal Chaos.
Perché quest’anelito di ordine,
che arse l’intero universo
e urlò la scoperta di Dio
dalla gola d’individui d’argilla,
è ogni volta soffocato dalla Morte
e ricacciato senza un grido nella Notte
obbedendo ogni uomo al richiamo
irresistibile del cupio dissolvi?
Eppure era vita incorporea,
luminosa coscienza, forse anima,
quella che un giorno abbandonò
il triste sacco della mente corporale
cercando come edera la luce
su per le pareti del mondo
per deporre le uova dello spirito
e dare un ordine morale all’universo,
un’impronta, una umana significazione.
Ma non riuscì a partorire che topi
d’una effimera scienza arrogante,
contorte deduzioni matematiche
di cause ed effetti, immaginarie
o furbe manipolazioni dell’Essere,
che gl’ingranaggi del mondo rifiutano
come corpi estranei nel suo occhio
o impotenti eiaculazioni precoci;
dell’Essere non sono che ombre,
vuote scatole cinesi che s’aprono
l’una dentro l’altra all’infinito;
sembrano gli sputi d’un dio
falso e bugiardo che cadono voluttuosamente
nel vuoto d’una tromba delle scale
descrivendo narcisistiche spirali.
Ma ora che l’occhio della mente
possiede la luce della coscienza,
nessuno potrà più occultare
la cieca strapotenza del Chaos
che sprizza come magma vulcanico
dal più piccolo squarcio del suo ventre
appena alziamo i veli sottili
delle false attraenti apparenze
ordite sapientemente dagli uomini
per nascondere i mali del mondo;
il Male in un rigurgito osceno
mostra agli spauriti prigionieri
l’orrore del nascere e del morire,
l’enorme cascata senza fine
di miserabili organismi affamati,
vermi insetti rettili uomini
ammassati sui propri escrementi
e che s’attraggono e uccidono l’un l’altro
con potenti zampe rostrate
e appuntite proboscidi succhianti,
mentre bocche potenti di vulve
senza sosta aspirano e digeriscono
i piccoli succubi peni
che docili si lasciano digerire
per popolare d’altre bestie la Terra.
Il Vero non è l’edulcorata
costruzione ideale di Euclide,
ma la lotta senza fine fra essere
e non-essere, fra moto e non-moto,
fra il Bene ed il Male che s'avvinghiano
bestialmente cozzandosi senz’ordine
né causa, né logica, né fine;
è il Chaos che ci assedia d’ogni parte
per ciecare lo sguardo della ragione
e gettarla vinta e annichilita
nelle tenebre inesplorate dell’Io
regno delle viscide paludi
del sogno, dove il mondo non è vero
ma soggiace all’orribile dubbio
della mera statistica indeterminazione,
dove forse l’Io stesso è un evento
assolutamente improbabile
fra creature assolutamente improbabili
senza neanche la certezza rassicurante
del provvido cogito ergo sum.
Più nessuna meraviglia dunque
risvegliarsi dopo notti insonni
di bestiali furiosi accoppiamenti
e trovarsi con zampe di scarafaggio
avendo accolto nella fetida cloaca
gli orgasmi mostruosi ed il seme
di aliene improbabili creature.
Troppo a lungo
il viscido mondo dei sensi
è riuscito ad ingannare la ragione
con cangianti colori, seducenti
incantamenti e sconvolgenti prodigi;
ora il frutto purtroppo mortifero
della nostra velenosa coscienza
ci ha aperto gli occhi fetali
e consegnati crudelmente adulti
con tutte le budella consapevoli
ad un incerto viaggio nella Notte,
dove mai alcun ordine intelligente
forse esiste al di fuori di noi
oltre i rigidi confini materiali
di quest’Io-navicella che solca
i gorghi infiniti del Chaos;
mai una benevola armonia
nei rozzi accadimenti del mondo,
mai alcuna luce proveniente
dall’amore rassicurante d’un Dio
che si sveli per portarci la salvezza.
Non si può non sentirsi perduti
alla fine d’una vita derubata
d’ogni Vero, con le carni avvizzite
soverchiate dalla lugubre avanzata
di ripugnanti metastasi del Chaos
che vogliono uccidere l’ordine
ch’è in noi, annichilire per sempre
il cuore pensante dell’Io:
questo nostro ultimo scoglio
che rifiuta ostinatamente di morire,
ma che un giorno dovrà pure arrendersi
alle ombre di un sonno di pietra.
Di fronte alle forme bislacche
di un mondo alieno e irreale,
è allora solo il riso sgangherato
del nostro Io cosciente e giudicante
l’unico segno noto e certo, lo scoglio
al quale aggrapparsi, per chi affonda
nelle melme ingannevoli dei sensi;
da tempo conosciamo la risata
che ci assale impietosa quando ignudi
ci sorprende attoniti lo specchio
col pene ciondolante e i nostri buffi
misteriosi orifizi corporali:
ben strani, questi alieni corpiciattoli
stupidamente ritti come zombi
su due gambe che non sembrano le nostre
ma piuttosto di creature animalesche
o curiose apparizioni di marziani,
e che solo con lo sforzo imperioso
della ragione si riesce infine a credere
che siamo davvero noi stessi.
Ma allora in questa strana vescica
ch’è il corpo forse esiste anche un’anima
totalmente indipendente e incorporea,
se l’Io, ch’è il nostro unico giudice,
ha nozione così chiara e lacerante
del suo esser separato dal corpo,
da poterlo con un riso amaro
guardare, toccare, palpare
come uno degli oggetti qualunque
ch’è possibile vedere intorno a noi:
una cosa pesante e neghittosa,
un sacco ingombrante di liquidi
e di feci, forse anche di vermi,
e che ognuno può vedere riflesso
in uno specchio che certo non mente,
oppure radiografare con strumenti
sofisticati, contare le sue ossa
ed i visceri schifosi più nascosti,
perfino mutilare e addirittura
cambiarne cuore, fegato, polmoni,
senza neanche intaccarne l’Io superbo.
Ma quale anima, Io, od animale,
può abitare dentro un guscio siffatto,
così capricciosamente disegnato
dal caso, da apparire solo buffo
e totalmente estraneo al nostro stesso
esilarato o sbigottito Io?
Ecco dunque finalmente questo Io,
l’assoluto inattaccabile sovrano
e nostra ultima pietra di paragone,
il solo che esista certamente
al di là d’ogni sospetto, anche se ride
d’un riso più cinico del morso
d’un cane, alla vista irreale
di sé e degli altri corpi che si guatano
in cagnesco coi grugniti animaleschi
di chi difende il grasso ventre dai nemici
saltellando come un triste automa
su un pianeta inospitale di sassi
orfano di Dio. Certo Iddio
non poteva mai esser l’ideatore
di siffatti animali a due zampe,
che sapienti come struzzi o galline
e bardati come truci difensori
del santo sepolcro del mondo
fieri e tronfi inalberano il pene
posseduto da dèmoni ringhiosi
per potere inoculare anche a costo
della vita il loro seme moribondo
nel ventre di vagine affamate
vaganti senza pace per il mondo,
e poi pisciano coi loro tubi sgonfi
dall'alto di fortezze inaccessibili
ed evacuano senza ritegno
indecenti rifiuti intestinali
da inguardabili sfinteri rugosi.
Quei tristi accoppiamenti concepirono
delle larve subumane senza coda
imprigionate per laidi sortilegi
nei gironi senza cielo di uteri
e nei ventri budellosi di madri;
un bel giorno credettero d’uscirne
libere con un’anima immortale
alla luce d’un sole prodigioso,
e forse non seppero mai
d’esser state partorite per scannarsi
alla luce di un astro che ormai
declina per soccombere alle tenebre.
Quale prova più certa e palpabile
della non esistenza di Dio,
che il riso sacrilego o lo sdegno
della stessa sua propria creatura
davanti alla macchina del mondo
più truce, sanguinosa e bislacca
che mai mente umana o divina
abbia fatto a propria immagine e somiglianza,
dove tutti gli ignari suoi figli
microbi, uomini, o topi,
continuano ilari a moltiplicarsi
soltanto per farsi divorare?
Ma la prova veramente inconfutabile
della non-esistenza di Dio
non è l’aspetto bislacco del mondo
o l’ecatombe di uomini che si scannano
rotolandosi in lascivi e truculenti
godimenti di guerra: se l’uomo
è impastato di male originario,
se è l’unico rettile ad ergersi
caparbiamente e consapevolmente
contro la Legge di Dio,
abbia pure la diletta libertà
di scannarsi nel mondo necrofilo
ch’egli ha scelto; ma ripugna invece
ad ogni legge e ragione conosciuta
il sadico accanirsi di Dio
anche su animali senza colpa,
il suo permettere a ignare creature
di cibarsi d’altre ignare creature,
di straziarle coi becchi e le unghie
godendo i loro fremiti fra i denti,
ripugna questo eleggere il dolore
a legge universale del cosmo.
Potrebbe un vero Dio che le amasse
giocare con le proprie creature
come oggetti insensibili, cose
o pedine del suo triste narcisismo?
Questa è dunque la cosa incredibile
chiamata benevolmente Creazione
ma che certo non può essere vera;
eppure siamo indotti anche se increduli
a sperare, per non sentirci soli,
che non sia una fata Morgana
esistente soltanto nella mente,
ma un mondo solidissimo e reale;
e infatti brancolando come ciechi
crediamo d’annusare e toccare
diffidenti come cani oppure pieni
di paura altri simili a noi;
anch’essi spauriti o perplessi,
che sembrano parlare e risponderci
con logici e sensati argomenti
e mostrare somiglianti reazioni;
noi perciò talvolta, anche se in dubbio,
siamo soliti chiamarli esseri umani
come noi, alcuni fiocamente
sussurranti lamenti nelle tenebre,
altri urlanti, o forse invocanti;
ma chi mai potrà dimostrarci
con la prova scientifica della ragione
che essi non siano fantasmi
creduti in buona fede veridici,
spesso amati follemente come noi stessi,
ma in realtà soltanto incorporee
allucinate invenzioni dell’Io,
che infine è il solo ente capace
di concepire e generare il mondo
ed anche allegramente annichilirlo?
Ma se dunque l’immagine idilliaca
di un mondo reale e ordinato
protetto da un benevolo Dio
e creato per nostra edificazione
sembra essere proprio impossibile,
se i bellissimi oggetti che ci appaiono
disposti armoniosamente intorno a noi
secondo leggi di causa ed effetto
sono un parto della nostra mente,
in quale piega straordinaria del Chaos
nacque l’Idea platonica di Ordine
che così profondamente s’incise
con armoniose categorie geometriche
nella cera della carne dell’Io
da generare l’Idea di Bellezza?
Quell’Idea si sollevò come un dio
sopra il mare in tumulto del Chaos
e con un grande lampo illuminò
le cieche notti infami e disperate
delle semplici menti animalesche
che ignare di luce pisciavano
da ogni orifizio del corpo
il male assorbito dal Chaos.
Ma ora che la mente ha conosciuto
la luce misteriosa della Bellezza,
è caduta prigioniera di Sirene
ch’ella insegue in ogni atto e in ogni luogo
fino a immaginare trasognata
ovunque la Bellezza, ben sapendo
che in tutto l’universo non v’è luogo
in cui essa sia vera e reale.
Quest’Idea mai saziata di Bellezza,
che ci costringe a cercare disperatamente
col corpo consumato dalla sofferenza
come bestie assetate nel deserto
fra i sassi dell’informe materia
l’ordine geometrico delle cose
e la vera, più grande, celeste
eppure inattingibile armonia
per possedere infine poche gocce
d’un debole riflesso di Dio,
era dunque chiusa in noi dalle origini,
sbatteva fra le sbarre della mente,
tentava di strappare i lacci
della carne per uscire senza corpo
dall’antica prigione del cervello,
rivedere la gran Luce originaria,
saziarsi, confondersi col Vero,
riposare in Lui finalmente.
Il Vero!
Chi mai ha potuto conoscere
questo Vero terribile, un fantasma
non si sa se d’amore o di morte,
o forse un tetro Dio onnidivorante
dalle doti oscure e contorte
così minuziosamente descritte
da visionari dotti teologi;
nessuno l’ha mai visto prorompere
da un tombino della vita quotidiana
in qualche forma certa di evidenza
quale un accadimento straordinario
od anche solo un mutamento impercettibile
nell’eterna fissità degli oggetti
che sembri almeno un po’ sovrumano,
una piccola apparizione da toccare
e credere senza sforzo della ragione.
Dunque quel Dio metafisico,
fraudolentemente elargito
ai poveri nell’ora del dolore
e poi tenacemente invocato
negli insonni grovigli delle notti
attanagliate dall’orrore della morte,
era solo creato dal bisogno
umilmente gregario e animalesco
di sottomettersi a un potente capobranco
per sperare un po’ di cibo e di salvezza?
un Dio come un padre padrone
che i cagnetti bastardi obbediscono
e poi piangono umilmente disperandosi
quando orfani si lasciano morire
sulla sua tomba? Allora anche per noi
è l’ora di lasciarsi morire
come cani fedeli e disperati
sulla tomba d’un Dio che forse è morto,
o forse non è mai esistito?
Eppure esiste al mondo almeno un ente
che non sia né fallace né incerto:
è l’Io autocosciente e consapevole
d’esser chiuso in una solida carne
che ognuno può vedere e toccare,
quindi certa e veridica testimone
d’una interna sostanza spirituale.
Era uscito dal Chaos sotto forma
d’un coagulo ordinato di molecole,
un vero microcosmo, forse un virus
che vagava senza patria fra le stelle
e poi è rotolato nei fanghi
primordiali d’un pianeta senz’anima
per trovare la salvezza eterna
in un ordine sempre più perfetto
delle proprie originarie strutture;
e fu il primo seme dell'Io.
Dapprima fu un ignaro corpiciattolo
strisciante sulla faccia della terra
che creò il primo abbozzo di ragione
a immagine e somiglianza di quell’ordine
che aveva in sé, ne avvolse gelosamente
i delicati meccanismi pensanti
nella carne della mente, poi inventò
il novissimo virgulto della coscienza
a illuminare il suo piccolo mondo.
Da quel tenero involucro carneo
umido di rugiada della notte
si librò incantevole al sole
l’Idea di Perfezione e di Bellezza
che prese d’assalto l’universo.
Fu una lunga fortunosa evoluzione,
l’Io dovette aprirsi una strada,
contrastare l’arroganza del Chaos
e della Morte, nascondersi in miriadi
di corpi d’animali inconsapevoli
per proteggere il suo piccolo tesoro,
la sua piccola idea di bellezza;
e quand’essa diventò gigantesca,
inondò l’universo sconosciuto
col pensiero e le opere umane.
Fu migrando da un io a un altro io
di madre in figlia e di utero in utero,
che l’Idea di Bellezza sopravvisse
alle tenebre voraci del Chaos
trasmettendo il suo essere immortale
a noi piccoli mortali trepidanti
ma forniti di sessi appuntiti,
ove ognuno liberava dal suo seme
le cellule che l’avrebbero rigenerata;
ma fu l’eterno urlo lacerante
delle folle generose di madri,
ogni utero eruttante con dolore
una minuscola particola di anima,
a creare il gran lago dello Spirito,
quell’immenso universale Io collettivo
in cui si specchiano tutti i nostri ego
e in cui freme l’Idea una e trina
di Ordine, di Armonia, e di Bellezza,
forse l’unica forma divina
umanamente concepibile dalla ragione.
Era dunque l’Idea di Bellezza
il germe del Dio così a lungo
inseguito; era stata sigillata
nel coagulo ordinato di molecole
forse un giorno portato sulla Terra
con l’onda dei venti stellari
in uno stato di morte apparente,
un lunghissimo sonno dello Spirito
sepolto fra i veli di ghiaccio
di code evanescenti di comete
che orlavano il buio delle notti.
Era il germe di un dio semi-dio,
e toccate le acque della Terra
improntò del suo ordine armonioso
altre infime molecole alla deriva
per creare i meccanismi cerebrali
di esseri bestiali e incoscienti
fatti solo per cercare cibo.
Ma non fu ancora pago, ed ora spira
dalla mente temeraria e consapevole
d’anime elette, scorre tumultuoso
nei neuroni di un cervello destinato
a sviluppare la totale onnipotenza,
già si annunciano le ondate di Bellezza
della grande esplosione dello Spirito
che certo toccherà in trionfo
gli estremi confini del cosmo.
Per ora è forse soltanto
un piccolo modesto semi-dio
dal cervello ancora troppo bambino
per aspirare ad agire meccanicamente
sui turbini degli eventi mortali,
ma è già in certo grado indipendente,
già sovrano nel suo ambito ristretto,
e presto imparerà irresistibilmente
a plasmare la faccia del mondo.
Ecco cos'è il nostro Io:
l’embrione d’un dio imbozzolato
in quest’umile carne animalesca
come nel ventre nero di Maria.
Sarà lui il futuro Salvatore,
l’isola benigna di ordine,
colui che con la mente ancora umida
dei veli uterini originari
già possiede la luce del Demiurgo
che ordina imperiosamente la materia:
forse ancora soltanto nelle zone
più deboli e circoscritte del cosmo,
ma il potente muggito del dio
che risveglia dovunque lo Spirito
già ci spinge ad assaltare e divorare
furiosamente sempre nuova materia,
a crearla, plasmarla, distruggerla,
sempre più a nostro arbitrio e piacimento,
sempre più a nostra immagine e somiglianza.
Durante gli oscuri millenni
in cui vigile abitava le menti
di poeti e filosofi divorati
da infantile sete metafisica
ma incapaci di dar nobile forma
alle sordide regioni del Chaos,
viveva dunque affondando
le sue barbe assetate di humus
in quei corpi bestialmente mortali
pescando nelle torbide cloache
degli istinti, dell’inconscio, dei sogni;
ma ora che quest’Io ha sviluppato
la terribile potenza della ragione
potrà imprigionare senza freni
gl’inutili astri e pianeti
nella morsa d’una rete informatica
di macchine uguali a Se stesso,
incorruttibili creature meccaniche
con la cui sterminata proliferazione
si potrà sottomettere l’universo,
addensare la polvere cosmica,
dar forma alle galassie e alle stelle,
ordinare la riottosa materia
fino agli ultimi confini del mondo,
là dove infine anche l’impeto
originario della creazione
si spegnerà poco a poco ineluttabilmente
man mano ch’Egli sazia la sua sete,
fino alla morte termica,
al silenzio divino e irreversibile
degli abissi dello zero assoluto.
Mai più invocheremo angosciati
Iddio come talpe smarrite
in ciechi labirinti sotterranei
per dar senso alle nostre esistenze,
mai più fantastiche favole
di improbabili creazioni divine
per spiegare il teatrino dell’universo,
groviglio inestricabile di fenomeni
che mai cessa di stordire la mente.
In verità l’immagine geometrica
che noi avevamo del mondo,
la sua legge rassicurante di causa
ed effetto, la formula che spiega
l’esistenza dei mari e dei monti,
dell’amore e della morte, e di noi stessi
ignudi insignificanti mortali
protesi nel possesso libidinoso
e impossibile d’un Dio sconosciuto,
in verità in verità altro non era
che lo specchio ingannevole di Narciso,
l’immagine ineffabile dell’Io
riflessa negli stessi nostri occhi;
poiché solo quest’unico Io
è Universo e Demiurgo, Vero e Dio,
Pensiero puro e gran Motore Immobile
che tutto genera e distrugge, anche se stesso,
in perpetuo disperato furore.
Non temiamo dunque mai più
d’inquinare e corrompere pianeti
con deliranti erezioni della mente
e le feci così a lungo disprezzate
della pura ragione meccanicistica,
invenzioni che sembrano diaboliche
di motori e di guerre stellari,
conquiste di mondi e di universi
nell’orgasmo di godere e possedere,
ma che sono soltanto creazioni
di quest’Io Universale che straripa
dal quel piccolo mondo in cui è nato;
non temiamo mai più di adorare
il bel vitello d’oro della Macchina
o l’esaltante inebriante Polimero
del barattolo di plastica: essi incarnano
il dominio della mente sul Chaos,
l’espressione matematica dell’Ordine
e la Bellezza che regna nell’Io;
è solo l’Io, che ci empie e satolla
plasmando il nostro mondo di creta
solo a nostra immagine e somiglianza
con i fuochi d’artificio di giocose
mirabolanti macchine elettroniche
ed entusiastiche esplosioni atomiche,
il cui unico fine è ricoprire
d’un manto d’intelligenza informatica
le parti più oscure dell’universo
fino a esattamente coincidere
con esso: due figure geometriche
perfettamente e mirabilmente giustapposte
per formare un unico Dio
compiutamente sviluppato,
un’unica enorme Intelligenza
fatta d’anima e corpo coincidenti
ed infine raffreddata e cristallizzata
nella lenta inarrestabile agonia
dello spazio e del tempo ormai vinti.
Ogni più piccola cosa
avrà la sua forma e posizione
definitiva e irreversibile;
la Creazione compiuta
e l’universo fermo senza un brivido
come un orologio scarico.
L’Io esausto riposerà nella morte
divenuto cristalli di ghiaccio
fra i mille ingranaggi arrugginiti
dell’Orologio fermo nella torre
schiacciato dal peso dei secoli
e dallo sforzo sovrumano di compiere
la misura impossibile del tempo.
Non attardiamoci oltre
in futili osservazioni di astri
o dissipanti inseguimenti di emozioni;
il tempo assassino vuol rubarci
con la nostra piccola morte
anche il piccolo sacco dell’io,
la particella di luce dello Spirito
e il compito che ancora ci attende:
dobbiamo partorire la Bellezza
che vegeta impastata con la carne,
dare forma e verbo al dio ch’è in noi,
liberarlo dalla carne cerebrale
scavando con le unghie e con i denti
un canale di opere umane
oltre la morte, portarlo fra le vette
rarefatte del Pensiero Assoluto,
ché diventi finalmente quel Dio vero
che fu solo disperatamente intuito
e anelato dal profondo delle notti.
Era l’attesa incerta,
la paura sempre divorante
del terribile ultimo sonno
a storpiare la vita felice
del piccolo io individuale
incanutito sui rifiuti del mondo
fra un lupanare e una chiesa sconsacrata
ma intento a conservare i suoi geni
nel buon ventre satollo d’una femmina
dopo aver furiosamente copulato
per non farli morire con lui.
Ma oggi è con un urlo nuovo
di gigantesca consapevolezza
ch’io sollevo le mie tristi croste
ed abbatto le quinte dipinte
di questo tetro Teatro della Morte,
sciolgo i lacci di quel grande Io
tramandato dalla madre e che mi giace
dentro l’anima da sempre respirando
col mio umile involucro moribondo:
è tempo di far vela col vento
impetuoso d’una nuova Creazione,
trascinati dalla forza della nave,
mondati dalle piaghe del Male.
Per quest’atto regale ch’è la Morte
siano dunque ben vigili i sensi,
il rozzo intelletto si affini
con l’aiuto di Muse sapienti
e dell’ottima amica filosofia;
e poi tutti vestiamoci a festa
per quest’opera solenne di creazione
con la veste più bella e sgargiante,
con il pene più aguzzo e più ardito
e i begli occhi che spiano dai buchi
sghignazzanti di maschere greche:
è l’ora della nostra solitaria
masturbazione, l’Evento degli eventi,
la potente scossa tellurica
che si propaga velocemente come il tuono
per le vuote cattedrali della mente
svelando la verità vertiginosa
del mistero di Dio, ecco infine
cos’è la Morte: un orgasmo senza fine
in cui s’estingue la magica coscienza,
ed al suo posto una sacra Eiaculazione
emette in un sospiro il seme
bello e luminoso di Dio. |