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IL PALAZZO DEL GRANDE TRITACARNE
Manuale del perfetto morituro

La prima edizione de Il Palazzo del Grande Tritacarne è uscita nel 1998 per i tipi dell'Editore Campanotto. La presente edizione è stata sensibilmente ritoccata.
Satira o grottesca allegoria di ospedali e lazzaretti, il Palazzo del Grande Tritacarne è il luogo terreno dove vengono amputati i mali corporali degli uomini per riscattarli dagli effetti mortiferi del peccato originario. Si descrivono con minuzia l’iter dei malati e le scientifiche procedure messe in atto per purgare e tritare la carne impura, distillarla, e trattarne il succo fino alla completa estrazione dello spirito.

Questo è il nudo terribile resoconto
in fede mia esattamente veridico
del sottoscritto testimone oculare
dopo la fortunosa esplorazione
della fabbrica più fosca e temuta
che si trovi nel mondo dei mortali,
ultima stazione conosciuta
della loro breve vita corporale
prima del grandissimo balzo
nel regno della Luce sconosciuta.
E’ resoconto degno di fede
perché d’uno che in quel luogo oscuro
ha conosciuto sulle proprie carni
il morso inesorabile del Male,
che succhia la vita del corpo
ai peccatori là stanziati in timorosa
ma impaziente attesa dell’Evento.
Egli ha avuto il compito ingrato
di riferirvi della santa guerra
che là ogni giorno si compie senza tregua
per riscattare il Male originario
col salvifico dolore corporale;
ma vi prego, fratelli nel peccato,
lasciate che non mostri la mia faccia
già tutta butterata dalla tabe.

Quel luogo è chiamato dai mortali
che ne sono i temporanei abitatori
il Palazzo del Grande Tritacarne;
l’interno è mantenuto segretissimo
per potere occultare ermeticamente
agli occhi timorosi di chi attende
fuori dalle mura il proprio turno
la vera procedura del castigo
cui è condannata la carne
di tutti gli organismi viventi
da quando nel buio primordiale
di oceani senza luce e senza nome
il primo agglomerato di molecole
offese le leggi matematiche
d’un perfetto universo che scandiva
il corso ordinato dei millenni
scagliandogli i vagiti arroganti
della vita neonata, avida e astuta,
ma imperfetta. Adesso i suoi figli
aspettano muti a testa bassa,
chinandosi umilmente a pregare
senza avere il coraggio di nominarla,
la pena della morte con dolore.

E’ luogo quindi d’un dolore necessario,
laddove i meccanismi infallibili
della Natura provvedono automaticamente
alla triste bonifica della carne
appena mostri gli effetti inverecondi
e devastanti del Peccato Originario.
E’ luogo mezzo sacro e mezzo infame,
per metà cloaca d’ogni morbo
d’un pianeta ricoperto dal Male
e per metà carne viva, bubbone
inciso per lo spurgo dei liquami
da un Medico impietoso e senza macchia.
A prima vista può sembrare un’ordinaria
seppur tetra ed austera costruzione
eretta in una valle appartata
dove forse l’aria è più salubre;
ma nessuno ha mai potuto riferire
se sia più baratro, fortezza, o grattacielo,
o piuttosto un’appendice della Terra
concresciuta corpo a corpo col Male
nello sforzo continuo d’annullarlo.
Invero le sue mura possenti,
giorno e notte protette da cani,
fossati, baluardi, lanzichenecchi,
nascondono le macchine terribili
addette alla rigorosa asportazione
di tutto il Male dal Bene del mondo.

A me è toccato il singolare privilegio
di tornare ancora vivo fra voi
dopo avere patito prigionia
in quel severo albergo di giustizia:
un permesso d’uscita straordinario
per restare quaggiù quanto basta
a rassegnarmi alle future e più pesanti
sofferenze e con più buona volontà
e mente più serena ragguagliarvi
sull’alto magistero chirurgico
degli addetti al solenne servizio
che garantisce la certezza del riscatto,
e quindi almeno un po’ confortarvi
circa l’ottima morte che infine
corona l’itinerario degli operati;
sempreché il progresso del mio male
e l’incombente finale dissoluzione
mi lascino terminare quest’opera
così sgradevole per me e per voi.

Nessun Angelo, Guida, Maestro
conforta l’ingresso infelice
in quel luogo di dolore necessario
senza uscita e senza fondo;
una nera automobile d’ordinanza
appare senz’avviso sulla strada
già penosa di viventi e peccatori
e li porta davanti a quel pozzo
dove sono costretti a guardare
ciò che prima nessuno vedeva:
l’oscena, orrenda faccia del Male
quand’esso viene estratto dal corpo
alla luce delle lampade operatorie
durante il doloroso scattivamento
ed è raccolto nell’enorme fogna
sita al centro più segreto della Terra.

Conseguenza necessaria del peccato
è dunque la purga della carne,
la quale è sempre accompagnata dal dolore
dal momento che il peccato e il dolore
fanno parte del plasma vivente;
essi sono la tara originaria,
l’ancestrale organica imperfezione
di quel globulo di vita temerario
che volle farsi impunemente anima e carne
fabbricandola con fragili molecole
contro tutte le leggi di natura
e poi si diede perdutamente a inseguire
l’irraggiungibile Bellezza di Dio
per divenire a sua immagine e somiglianza.
Il peccato quindi è il disordine
annidato nella materia del corpo,
che perciò si trova sempre sull’orlo
d’un fatale rovinoso disfacimento;
ma il dolore è il grande taumaturgo
che ha il compito crudele e sublime
di riscattare la colpa di vivere
emendando i tumori d’una carne
atta solo all’insano godimento
dei beni ingannevoli del mondo
e che mai fu capace di imitare
l’ordine mirabile di Dio.

Là dunque il dolore della carne
è un veleno altamente concentrato:
in ogni metrocubo di cemento
c’è un peso incalcolabile di dolore
da ammazzare tutti gli uomini del mondo
se venisse liberato dal Palazzo
in cui esso è tenuto nascosto
o venisse per dolo versato
negli acquedotti municipali delle città.
Ma il dolore trasuda lo stesso
dalle garze, dal sangue, dal pus,
tracima dai pozzi di racccolta,
allaga di fetore ogni stanza,
inzuppa ogni poro del cemento
e gocciola giù dalle muraglie
insieme al ronzio dei macchinari
come sozzo liquame goloso
per le danze d’ogni sorta d’insetti.
All’interno, imperturbabili monatti
amministrano abilmente il dolore
riscuotendone i tributi in accordo
con una sana economia generale
man mano che la folla dolente
dei forzati contribuenti si accalca,
prescrivendo silenziosi trasferimenti
nelle zone più profonde del Castello
dove il sole non riesca a mostrarlo
man mano che esso incrudelisce
e deforma le facce dei malati.

Ma è soltanto il Grande Tritacarne
la macchina severa e sublime
sapientemente ideata dalla Natura
per trasformare e riscattare il peccato
con la forza taumaturgica del dolore.
E’ un’enorme piramide di macchine
telecontrollate dall’altissima
sovrastante Autorità, in cui le carni
a milioni partorite dalle madri
con l’urlo silenzioso dell’utero
a milioni son pigiate come mosche
fra i denti di ingranaggi trituratori
e poi man mano fra le spire di torchi
e potenti alambicchi redentori
per subire l’esaustiva sublimazione
e la tremenda squassante trasmutazione
del loro succo in purissimo spirito.
Dopo, anche il ricordo del dolore
è poca cosa, poi che anch’esso sublima
in rarefatti vapori azzurrini
abbandonando le molecole di materia;
e allora è concesso agli spiriti
d’accedere al Regno della Luce.

Eppure perfino in quel luogo
tutti sperano ancora di sanare
la cancrena del peccato originario
senza soffrire, soltanto ostacolandola
o negandola, nel vano tentativo
d’allontanarla da sé col pentimento
od altri umani inadeguati strumenti;
ma alla fine dell’impari guerra
esausti rassegnano le membra
nelle mani paterne dell’Autorità
e si lasciano estrarre col dolore
la propria quintessenza spirituale.
C’è anche chi confida che un giorno
il bestiale bubbone del Male
sarà eliminato dal mondo
da una grande operazione chirurgica
di natura squisitamente filosofica,
o da un provvido rigurgito del Bene
che produca un generale ravvedimento,
o da un orgasmo selvaggio della vita
la cui forza non sia più conculcabile;
ma la turpe radice è più tenace
della vita, del rimorso, della ragione
già all’origine irreparabilmente infettati,
e torna sempre a galleggiare sul mondo.

La sagoma proterva del Palazzo
è visibile da molto lontano
anche ai semplici villani indaffarati
nelle usate attività quotidiane
e attraverso la foschia della campagna.
A chi lo contempla da sotto,
la sua grigia mole proterva
priva di finestre e feritoie
sembra alzarsi dagli abissi della terra
con le mura tetragone e bugnate
ed i ponti levatoi ben sprangati;
ma poi con meraviglia ci si accorge
ch’essa s’alza arditamente in cielo
con gli altissimi camini fumanti
e la prestanza d’una fabbrica industriosa
circondata da ospitali superparcheggi
per accogliere milioni d’automobiline
che si scorgono arrivare continuamente
come lunghe processioni di formiche
in marcia dalle terre più lontane.

Ma nessuno sa nulla delle viscere,
o soltanto quel poco che trapela
col felpato ronzio delle macchine
e il fremito perpetuo degli organi
addetti alle complesse operazioni;
perciò ogni formica inconsapevole
gli reca umilmente il suo carico
di laida materia malata
e di povere inutili masserizie,
s’affolla accampata ai suoi piedi
tentando di eludere la sorveglianza
dei ligi guardiani in uniforme
e subito entrare e guarire,
oppure cercare gli amici
o i genitori da tempo malati
e poterne leccare con affetto
il dolore che senza ritegno
ora cola dalle mura di cemento
e forse è sangue, o lancinante pianto.
Ma le vetture lasciate nei parcheggi
da quei visitatori fortunati
che passano l’esame dei Dottori
e infine sono ammessi ad entrare
una a una vengono segretamente
schiacciate e pressate dai bulldozer
e avviate celermente agli altiforni
di inaccessibili fonderie sotterranee.

Alla nostra semplice mente
non è dato neanche immaginare
il disegno delle mille concamerazioni,
e tanto meno capire le funzioni
d’ogni cella, cunicolo, macchinario
che s’intravede fosco nell’ombra;
io stesso che a lungo ho perlustrato,
sempre smarrendomi, l’interno del Palazzo
posso dire soltanto che la parte
più bassa e profonda della fabbrica,
emergente dalle oscure fondamenta
come un ventre tenebroso di balena
intento a laboriosa digestione,
è vegliata giorno e notte accortamente
da precisi meccanismi che aprono
e chiudono rubinetti e saracinesche
per smistare il flusso carnario
alle più grosse budelle di depurazione
o ai fumanti forni inceneritori.
Da lì fino all’ultimo piano,
dove svettano bandiere e fumaioli
più vicini alla Luce Superna,
è invece un altare grandioso
di finissimi tubicini catalizzatori
in cui la poltiglia di carne
si fa sempre più fluida e più limpida,
perfino inesplicabilmente luminosa
man mano che il succo è distillato
e le scorie più pesanti evacuate
in cloache che attendono a valle.
A tratti infatti s’aprono le botole
affinché le colate dei liquami
ora lascino libera e pura
la vetta da ciò ch’era solo
carne impura e dolorante di peccatori
che credevano nascondendosi come topi
nelle tane più buie della coscienza
di sottrarre le proprie vergogne
allo sguardo inquisitore dell’Autorità.

Pochissimi sanno che la Morte
strisciando silenziosa come serpe
s’insinua precocissima nei corpi:
oggi forse è solo un foruncolo,
domani un doloretto al fianco destro,
posdomani una brutta indigestione
al lauto banchetto della festa
per il ritorno della prodiga figlia.
La Morte è quel cieco parassita
ch’è penetrato già nell’embrione
il primo incauto giorno d’esistenza
e s’è scavato una tana sicura,
come sposa che il dì delle nozze
s’impossessa solerte della casa
in cui deporre le larve dei rampolli
e nutrire i loro stomaci vuoti
finché siano più grossi del padre
ed abbiano divorato anche le mura;
essi allora marciando sul suo corpo
se ne andranno ad infestare il mondo
ingozzando ogni cosa commestibile
come eserciti funesti di termìti.

Tutti perciò in quest’Albergo,
anche quelli che entrano soltanto
per esami di poca importanza,
sono veri moribondi: non si entra
per uscire ma solo per restare,
per il dovere di creatura mortale
di lasciare nel mondo caduco
anche i piccoli piaceri corporali;
al massimo è concesso di serbare
il possesso d’un breve giaciglio,
simulacro di quel caldo ventre
che un giorno fu soltanto nostro
e in cui godemmo i primi giorni della vita
ma che ormai non è più; adesso il ventre
è solo questo tempio, e la madre
solo queste ombre silenziose
di solerti incorruttibili sacerdoti
intenti con bisturi e seghe
a tagliare i bubboni maligni
cresciutici da allora sulla carne
e a cancellare tutti i segni del peccato
prima che la carne marcisca
e cadendoci a pezzi per via
sia annusata con disprezzo dai cani
o abbandonata a file immonde d’affamati.

Sospinti dalla fila interminabile
avanzano i nuovi arrivati
in muta ordinata processione;
uno a uno s’affacciano timidamente
con un debole sorriso sulle labbra
e il viso butterato dal male
nascosto da belletti e profumi;
ma dopo i deferenti saluti
agli anziani riservati e silenziosi
e gli inchini ai potenti Superiori,
dottori, ecclesiastici, portantini,
la logorrea dell’attesa li vince
e devono sciorinare alle orecchie
degli indifferenti veterani
la minuta descrizione dei disturbi
specialissimi che gli affliggono il corpo,
affinché non nasca il sospetto
che in realtà siano sani come pesci
e possano essere malvisti
dai gelosi compagni di sventura.
L’indomani, udendo strida animalesche
dai malati messi in fila sotto i ferri
per le piccole ordinarie amputazioni,
confideranno con intensa sincerità
a tutti quanti d’aver viscere sanissime
e che anche se verranno visitate
dai dotti professori in cappa bianca
ciò è dovuto a un errore increscioso,
forse una burocratica formalità
o un censimento meramente statistico,
al massimo un controllo di routine;
ma appena i professori gliele toccano
con le apposite pinzette per non sporcarsi,
esse cadono a pezzi con meraviglia
degli stessi malati e dei compagni.

Allora pronta, decisa, appropriata
sarà la cura, e tutti fiduciosi
nella riuscita dell’operazione;
anche medici e speziali, che impazienti
come soldati si gettano eroicamente
nel cimento con l’orribile Bestia
estirpando milze e budelli
dalle tane in cui spandono veleni
a tutta la persona sfortunata;
li studiano a fondo con la lente
per scattivarli coscienziosamente
nel caso sian di nuovo utilizzabili
in altre parti del corpo ancora sane,
ad esempio nel petto o nella schiena
(in cui però purtroppo fatalmente
dovranno fare una piccola gobba),
ovunque insomma riescano a trovargli
un posticino ove ancora far bene
in attesa del prossimo scattivamento;
eventualmente anche in altro malato,
purché non sia troppo avanzato
il suo stato di decomposizione;
ma pensiamo che facciano il possibile
per conservarli ai legittimi proprietari
affinché il loro povero corpo,
che pure dovranno abbandonare,
non sia prematuramente sconciato
ed offesa la dignità del malato
nel suo viaggio già troppo doloroso
incontro alla Luce agognata.
In effetti non si può negare
che i pensosi cerusici operando
con grande senso di responsabilità
siano consci della nobile funzione,
anche se a dire proprio il vero
talvolta si vedono volteggiare
leggiadramente fra le ruote dentate
delle loro affilatissime macchine
con singolare acrobatica levità
e il sorriso dipinto dei clown.

Quando estirpano un fegato a un malato
o una serpe attorcigliatasi nel corpo
e lui mugghia il dolore silenzioso
straziante della bestia ferita,
i compagni lo circondano guaendo
sommessamente, annusano il suo sangue
come i lupi un fratello sfortunato
e cercano invano di sottrarlo
al plotone ringhioso dei segugi
o almeno di leccargli pietosamente
le ferite inferte dal destino.
Il lamento ed il fremito del corpo
che straripa da un ventre squartato
è intollerabile perfino alle bestie,
è come se i ferri strappassero
le stesse nostre carni dall’oblio
e la Morte sgusciasse con un balzo
dal suo covo costringendoci all’orrore
di guardare senza occhiali protettivi
la Gorgone e il crudele bagliore
che conclude la vita corporale.

I malati minori, costretti
ad oziare in attesa di più dure
dolorose e indecenti mutilazioni,
contano e ricontano i giorni
che mancano all’incontro con l’ultimo
supremo sconosciuto Dolore;
si son fatti piccoli piccoli
come sorci rannicchiati nei lettucci,
coperti fino al capo dai lenzuoli
per non farsi notare dai segugi
che conoscono ogni anfratto del Palazzo
e che fiutando da lontano il Male
frugano ovunque rabbiosamente per stanarlo.
Ma quando finalmente il giorno muore
ed hanno tregua le cacce spietate,
senza freni si liberano dalle tane
i gemiti e i vagiti degli insonni,
i rantoli faticosi dei dormienti,
le sonore flatulenze dei ventri
enfiati penosamente come tamburi;
qualcuno, quando il sonno più profondo
tanto atteso di sorella Notte
vince tutti, secondini e prigionieri,
può perfino strisciare non visto
fuori dalla cuccia dolente
ormai lorda di secreti e deiezioni
per aspirare dagli stretti sfiatatoi
un po' dell’aria fresca delle stelle.

Ma i più se ne stanno stesi a letto
a esplorare con le dita rimaste
le grotte tenebrose del naso
smisuratamente dilatate
da brutali intrusioni di ferri
e impietosi svuotamenti di adenoidi
con le loro radici maligne
che affondavano nel cavo del cranio,
dove ora restano soltanto
stalattiti gocciolanti di echi.
E’ una caccia spiritata ad ogni avanzo
che possa propagare il male
al resto forse sano del corpo;
se catturano un insetto velenoso,
o un verme untore, lo schiacciano festanti
chiamando a raccolta i compagni
ancora in grado di strisciare dai giacigli,
e poi con grandissima cura
l’appendono al capo del letto
vicino alla Madonna di Lourdes.

Agli stadi iniziali del viaggio
la Luce che darebbe conforto
è ancora sconsolatamente lontana
e nei grandi magazzini semibui
sta una folla sbigottita e dolorante
di topi fraternamente abbracciati;
peraltro ognuno è solo col suo pianto,
attende con timore il proprio turno
di periodiche ineluttabili amputazioni
e a poco vale che intanto sia sottratto
alla furia delle lampade operatorie
sempre in moto, che impudiche feriscono
giorno e notte taglienti come coltelli.
A chi attende spaurito gli eventi
non si deve dare conforto,
né tenergli le mani, né parlare;
anzi, certi insaziabili moribondi
guai a toccarli o svegliarli
o anche fissarli negli occhi:
t’aprirebbero subito le braccia,
s’abbrancherebbero subito al tuo petto
per accattare ancora un godimento
dal dolce mondo prima di svanire
e di lasciare vacanti le tane
con i letti rifatti a puntino,
crisalidi secche d’insetti
ordinate e composte ma vuote
di farfalle vissute solo un giorno
e disperse col vento della sera.

I più gravi infatti sono colti
da una forma fatale di accidia,
sul pagliericcio giacciono immobili
e non sperano in impossibili miglioramenti;
sanno di covare già le uova
non ancora ben schiuse della Morte,
si leccano e rileccano i vuoti
lasciati dagli organi estratti
o si palpano inquieti la parte
dove punge un altro organo malato
prima che le macchine aspiratrici
frughino alla ricerca del Male
nel buio di quel ventre neghittoso
per indurlo alla giusta evacuazione;
ma emettono un guaito soffocato
ogni volta che un organo gli è tolto
magari per errore da focosi
e forse troppo giovani cerusici;
sbigottiti chiedono a lungo
con un timido pianto sommesso
di vederlo per l’ultima volta
e fra le lacrime interrogano con deferenza
chiunque, aiutanti e portantini,
sul destino di quel caro materiale
gelosamente posseduto fino allora;
ma nessuno dei sapienti apre bocca,
si soffermano con flemma ad espletare
opere sbrigative di bonifica
e a regolare la pressione delle macchine;
non si voltano neanche ad ascoltare
mentre vanno dondolandosi a svuotare
le padelle di materia corporale
nella grande cloaca generale.

Approssimarsi all’ultimo piano
per entrare nel fiume della Luce
agognata ma abbagliante e terribile
irradiata dall’Occhio di Dio
è un processo catartico automatico
indipendente dalla nostra volontà:
si è costretti a salire quell’erta
lentamente di gradino in gradino,
di doglia in doglia, poi di grido in grido
sempre più lancinante e disumano,
trascinati come cani alla catena
dalla forza fatale di sublimazione.
E’ vero che man mano che si compie
il sapiente disegno del Padrone
la sofferenza, ch’è propria soltanto
della parte corporea animalesca,
si tramuta in ebbrezza per la Luce
che s’avvicina, ma all’inizio si nutre
solo orrore e rivolta per la trappola
in cui ci hanno fatti cadere
e si strepita di non meritarla.
Anche quando in quel mondo di dannati
si trovasse per caso un peccatore
un po’ filosofo che da Madre Natura
avesse ricevuto il privilegio
grandemente consolatorio della ragione
e riuscisse ad inventare ingegnose
e forse appassionanti teorie
sull’arcana natura del Male
ed una sua credibile funzione
nell’oscura economia dell’universo,
anch’egli con livore blasfemo
finirebbe per chiedersi invano
per quali colpe siamo stati condannati,
avendo solo obbedito alla Natura
e ai buoni sensi donatici da Dio
per godere dei beni terreni.
Dopo tanti inutili sforzi
per comprendere il castigo della morte,
la sola clemenza concessa
prima d’affrontare le future
e ancora più temibili mutilazioni
è un lieve sonno; ma la tregua è troppo breve
per gli assalti forsennati del dolore.

Purtroppo anche le notti sono avare
di sollievo, anzi sembrano accanirsi
con attacchi sempre più rabbiosi
mentre i sofferenti stanno lì
coi corpicini mutilati e contratti
ad attendere legati ai lettini
gli stupri sanguinosi delle macchine.
Eppure c’è ancora chi crede
che il caso o la fortuna, se volesse,
potrebbe alla fine risparmiargli
almeno il dolore supremo,
quello più lancinante di tutti,
del momento della grande trasmutazione;
ancora ignora tutta la verità
circa il suo destino di peccatore,
non sa che durante l’ascensione
man mano che la Luce s’avvicina
il corpo sempre più si corrompe,
e che le stesse parti corrotte
premono per essere amputate,
e che alla fine del percorso tassativamente
tutta quanta la materia carnale
deve entrare nell’imbuto del Tritacarne
spinta dalla forza automatica
e irreversibile di torchi ed ingranaggi
che procedono sempre in avanti,
fino all’ultima altissima Macchina
dove attende circonfuso di luce
il grande maestoso Inquisitore.

Ancora non riescono umilmente
ad essere perfetti morituri,
ad esser grati della propria sorte,
ad accettare il dono della morte
come unico scopo della vita,
coronamento d’ogni atto e pensiero;
sono ancora riottosi prigionieri
d’una succube ambigua sudditanza
all’infallibile autorità del Tritacarne,
il potente incorruttibile carnefice
e per loro ancora unico custode
dell’ultima flebile speranza.
Ma poi col progresso del male
s’aggrappano coi denti e con le unghie
ad ogni piccola fata morgana
fatta loro balenare furbamente
dai più loschi vassalli e valvassori
all’insaputa della grande Autorità,
e da ancora più servili emanazioni
mercenarie di amici degli amici,
sempre nell’attesa disperata
d’un impossibile intervento della fortuna.
Infine, quando tutto il dolore
di cui sono sfortunati debitori
ai funzionari dell’Amministrazione
è consumato, la fortuna può soltanto
ricoprirgli il capo pietosa
con un funebre nero lenzuolo.

Nessuno infatti degli esseri viventi
che indulsero a gustare dall’albero
il frutto goloso della vita
può nutrire la speranza di salvarsi
o di avere riduzioni di pena;
tutti devono restare distesi
nei loculi a loro assegnati
come serpi mortalmente colpite
dal bastone, che dapprima si dimenano,
frustano l’aria col coraggio della paura,
ed infine son costrette senza scampo
dalle cinghie degli apparecchi di contenzione
a lasciare morire quel corpo
colpevole d’averli istigati
a illeciti godimenti materiali.
C’è anche chi tenta da solo
l’ardua sublimazione spirituale
di tutta quella sordida carne
soffiando come può sul fuochino
d’una piccola quantità di spirito
che forse freme ancora in qualche cellula
dimenticata del corpo; ma purtroppo
è soltanto l’impietosa e totale
per statuto fatalmente dolorosa
resezione della carne colpevole
fatta a regola d’arte dalle macchine
all’uopo legalmente abilitate
l’unica via consentita
per essere accolti dalla Luce.

In questo stadio chi attende sfinito
la potente chiamata generale
ha già sciolto i legami più cari
e lasciato al loro destino
le cose più amate del mondo,
poi che il mondo si perpetua indisturbato
anche senza il suo minuscolo io
così insignificante da svanire
senza neanche lasciare una traccia.
Dove sono le immagini belle
della mamma, della sposa, della sorella?
o il ricordo senza uguali di quella
mitica spiaggia dei tropici
tanto a lungo immaginata e sognata
e infine potuta toccare
con gli occhi e le mani stupite
in ginocchio sulla sabbia dorata?
quel mare così azzurro, la brezza
che soffiava ricami di spume
contemplate a perdita d’occhio
quando ancora la maestà dell’Infinito
incuteva timore e speranza?
questo piccolo io tanto amato
era dunque davvero soltanto
un fugace aggregato di molecole,
un microcosmo formatosi per caso
fra le grandi traiettorie di comete
ed il tempo smisurato di Dio?
Aveva la superbia di quadrare
con la gracile forza della ragione
il cerchio misterioso del mondo,
e non sapeva che alla fine il mondo
è tutto qui, in questo corpo ignudo,
e ruota intorno al morso velenoso
d’un ragno che ci succhia la ragione
intrappolati come mosche nella tela.
Nemmeno la ragione più sottile
potrebbe mai trovare in quella rete
un buco per scampare; ma ormai
forse neanche lo stesso dolore
è più temuto dagli esausti prigionieri.

Quel piccolo arrogante microcosmo
ora infatti conserva solo appena
una fiammella di vita vegetale
che vacilla a ogni soffio di vento;
non ha più desiderio d’amare
o d’essere amato, di pensare
o ricordare il proprio inutile nome.
Ma talvolta risorge tumultuosa
perfino da un tizzone quasi spento
la scintilla d’un lucido ricordo
lontanissimo quanto inaspettato:
oh, l’incantevole profumo
di quella bianca ascella di donna,
giovane allora, e forse anche felice,
la prima volta che si fece baciare
tutta nuda, e ci fu cara per sempre.
Ma anche quest’immagine struggente
subito svanisce; che sia stata
la compagna d’un giorno o d’un anno,
ora la sua foto ingiallita
riposa in un cassetto polveroso
dove i figli ben presto frugheranno
per fare ripulisti di ciarpame.

Intanto il Palazzo continua
imperturbabile a espellere dal Creato
i guasti corporali dei viventi
che ne sconciano l’armonioso Disegno.
Ombre silenziose di parenti
s’avvicendano mute fra le celle
dove ronzano gelide e insonni
le efficienti macchine guaritrici
tutte intente nell’opera di bonifica
con rapide esatte amputazioni
e minimi schizzi di sangue;
col cuore in gola tastano e ritastano
girandoli un po’ per riconoscerli
i corpiciattoli accartocciati nel letto
che guaiscono piano dolenti;
come premurose levatrici
liberano con clisteri le budelle
dal peso insostenibile della materia
nascondendo pietose sotto i letti
gli indecenti vasi da notte
che son ghiotto nutrimento del Maligno,
leccano le piaghe più recenti
accompagnando con miele ed unguenti
nel loro cammino di riscatto
lo sviluppo dei bubboni neonati
ed impietosamente asportati.
Ma piaghe, bubboni ed escrementi
tornano ad invadere i corpi,
se i parenti in un momento di debolezza
s’abbandonano sfiniti su una panca
a riposare solo un istante:
non v’è mai armistizio nella guerra
contro il male della Morte, una madre
oscena ed immortale troppo grande
anche per odiarla o per amarla.

Ma ai moribondi la pietà dei parenti
può lenire l’attesa sfibrante
delle prossime decisive amputazioni
con massaggi affettuosi e delicati
ai monconi dei piedi e delle gambe
e prima che si raffreddi la circolazione
per trasmettere messaggi d’amore
e vincere il torpore del morente;
ma anche soltanto sulla schiena,
se nient’altro di buono è rimasto
dopo l’ultima crudele mutilazione.
Ad essi si fa pure cosa grata
a carezzargli leggermente il viso,
o come si fa sempre con i bimbi
a sfiorargli per gioco col dito
il naso, le labbra, infine gli occhi
che forse già stanno chiudendosi,
cantando piano piano ninne nanne
per dolcemente accompagnarli nel sonno;
distintamente si sente che rispondono
con brividi e sospiri di piacere
scivolando nell’oblio predestinato
forse quasi senza più avvertire
il brutale distacco dell’anima.
Siamo in fondo come piccoli gattini
che dopo un’avventura fortunosa
amano addormentarsi acciambellati
coi fratelli per sentirsi partecipi
d’una unione potente che la Morte
non osi più sciogliere; anche gli uomini
dopo le fraterne carezze
s’addormentano così nella cuccia
da tempo preparata dal Padrone
già con meno timore, un po’ contenti
che la vita non sia invano trascorsa.

Talvolta i moribondi meno vecchi
non ancora del tutto intorpiditi
dal pesante processo di mutilazione
gradiscono ancora qualche gioia
blandamente sessuale, soprattutto
le donne la cui anima gentile
non è pronta per lasciare il mondo,
se dolcemente gli si toccano le parti
che avevano un tempo più care,
e non importa se un poco avvizzite;
gli si può accarezzare lievemente
ciò che era una volta il bel seno
oppure pettinare con affetto
il ciuffo forse ancora rigoglioso
del pube, così ch’egli si sovvenga
delle vecchie soavi tenerezze;
e spesso accade il miracolo
che ridendo tutto con gli occhi
esso faccia ancora le fusa
e sia tutto inumidito come allora,
per quel grande dolcissimo amore
che non è più. Invece gli uomini moribondi
han più ritegno; essendo meno sensibili
gradirebbero decisi toccamenti
dei testicoli e magari del pene,
poiché le tenerezze non si addicono
alla severa dignità dei maschi
seppur debilitati; tuttavia
non è bene insistere troppo
sui bizzarri organi erettili
di chi si deve conciliare con la Morte.

Oh, parenti e amanti infaticabili
coi visi illuminati dall’amore,
che credono più forte della morte,
quando portano la luce a quei giacigli
ingombri di tronchi e di arti
già disfatti ma ancora troppo cari!
Non rinunciano ancora a tamponare
con ogni mezzo consentito ai parenti
le bocche beanti delle piaghe
per arginare il fiume della vita
che sfugge insieme al sangue da ogni buco
e ad opporre perfino il proprio corpo
alla pressione incalzante dei cerusici.
Ma in quest’umile guerra di poveri
ineluttabilmente già scritta
ormai non potranno far altro
che tremare ad ogni grido nella notte,
nutrire di speranze artificiali
le membra crudelmente macellate,
continuare a passare e ripassare
fra i letti che si svuotano uno a uno
coprendoli di baci e di sussurri
per indurre almeno l’anima a restare,
e poi correre a nascondere le lacrime
nei corridoi, quando tutto l’amore
non può più nulla sulla roccia inscalfibile
di ciò che deve assolutamente accadere.

Dovranno umilmente inchinarsi
dinanzi alla potente Autorità;
al massimo potranno supplicare
superiori e subalterni di ridargli
almeno la reliquia d’un osso
che una macchina ha estirpato senz’avviso
ad un corpo disperatamente amato;
vorrebbero poterlo portar via,
conservarlo in un prezioso cofanetto,
rivederlo qualche volta la domenica
con i figli distratti e neghittosi,
che ne serbino almeno la memoria;
nulla sanno del vero destino
di quei pezzi sconciamente amputati,
ignorano ancora che le macchine
per inflessibile statuto dell’Ente
son costrette a macinare con scrupolo
ogni forma non regolamentare,
perciò indecente, di carne o di osso
che si sia impudicamente abbandonata
alle facili lusinghe del piacere,
poiché devono estrarre dal macinato
al più presto l’essenza extravergine,
il fior fiore più puro dello spirito
esente da ogni traccia di materia
per sottrarlo alla cupidigia del Maligno.

Al mattino gli aiutanti dei monatti,
tutti altamente specializzati
perché esperti in procedure consolatorie
molto sofisticate messe in atto
per i malati dei piani più alti,
sono ilari freschi ed aitanti,
hanno appena divorato con gusto
la colazione di cornetti e cappuccini
e con la loro radiolina a zainetto
si muovono fra le bare già pronte
con agile passo di danza
per alleviare la pena dei pupilli
con i ritmi tranquillizzanti del rock.
Questo trattamento speciale
grandemente umanitario ed eutanasico
fu una grande concessione dell’Autorità
fin dal millenovecentotrentuno
per onorare un generoso mecenate
fondatore del Centro Ricerche,
ed è il fiore all’occhiello del reparto
addetto alla delicata formulazione
di trattamenti più moderni e qualificati,
più adatti alla condizione solitaria
dei moribondi; infatti questa cura
è talvolta ancora capace
di destare per vie naturali
anche in una mente già spenta
una fugace visione di sole,
di mare, di spiagge, di amori.
Purtroppo anche questo sollievo
deve subito cessare, i moribondi
non devono attardarsi in ricordi
che non siano pertinenti al loro stato:
è necessario chiamare a raccolta
ogni piccolo pensiero superstite
e concentrarlo sulla rapida evacuazione
della materia che intasa tutto il corpo
invocando con riti propiziatori
l’avvento felicemente rovinoso
dell’ultimo fiotto di cacca.

Il morituro adesso è prigioniero
d’una fitta ragnatela di macchinari
che ha il compito di vigilarne la decomposizione;
ormai si lascia infilare mansueto
da ogni buco naturale o artefatto
intelligenti microsonde di computer
che per lunghi tortuosi budelli,
scossi ancora da un ultimo debolissimo
fremito peristaltico, pervengono
al loculo del ventricolo maggiore
dov’è nascosta l’anima stordita
per misurarne l’oggettiva debolezza,
laddove quei sensibili processori
captano i più deboli guizzi
degli spiriti ancora superstiti.
A uno stadio di morte più avanzato,
quell’albero bacato e infruttifero
si lascerà segare tutti i rami
mentre teste occhialute di telecamere
dall’occhio glauco ad alta definizione
vibrando tracotanti come serpi
ficcheranno il loro occhio impudico
dritto nelle guaste radici
per osservare le fauci del Male
e controllare scientificamente
l’andamento dell’interna liquefazione.
Alla fine il fallo enorme d’una idrovora
si aprirà oscenamente la strada
su per l’ano per l’ultimo stupro
e inghiottirà tutti i solidi e liquidi
dal tronco marcio che in un attimo si sgonfia.
Il controllo accurato e scrupoloso
dei parametri del disfacimento
è sempre stato dovere e virtù
praticati senza alcuna economia
dall’onesta e solerte Amministrazione.

Cercando per camere e stambugi
dei volti noti per portargli conforto,
è stato con un tuffo al cuore
che ad un tratto ho udito nel buio
il respiro faticoso d’un dormiente
tutto solo in una povera cuccia
e abbandonato a un profondo sopore;
m’aveva assalito il ricordo
d’un altro penoso respiro
e i giorni d’un altro dolore
che ancora mi trabocca dal cuore:
ero certo che fosse della Mamma,
quando vecchia pativa crocifissa
ad una croce di macchine e di tubi
il poco tempo che ancora le restava
mentre Morte la guatava dal suo scranno
già spandendo quel suo odore inconfondibile;
ancora quell’esausta partoriente
non aveva terminato di espellere
con doglie pietosissime del petto
l’anima che vi s’era rifugiata,
ma già delle macchine orribili
la tallonavano in ogni caverna
sebbene già vuota e raschiata
per aizzarla più presto ad uscire.
Anche oggi con forte batticuore
ho cercato a tentoni il capezzale
dell’amata dormiente e dei sospiri,
ma ho abbracciato sconvolto e confuso
solo un povero vecchio sbigottito
chiedendo mille volte scusa
per averlo disturbato nel suo viaggio.

Chi potrà dimenticare i patimenti
che dovetti mio malgrado infliggere,
per presunte guarigioni che non giunsero,
a quella povera vecchia innocente
nelle cui deboli latebre corporali
il Male sommuoveva insospettate
animalesche diaboliche forze.
Ella aveva esaurito il suo compito
di dispensare a noi figli già grandi
lumi e nutrimento, ma ancora
non voleva affatto morire
e i diavoli nascosti nel budello
forte strillavano per la sua bocca
di volere continuare indisturbati
i loro soliti traffici fecali;
allora i santi Inquisitori con la corda
le legavano in nome di Dio
le zampe che brandiva come fendenti,
poiché il dovere li votava a castigare
le bestie rintanate nel suo corpo;
anch’io purtroppo gridavo senza rispetto
alla sua bocca oscena che tacesse,
non volevo più sentirmi addosso
i graffi delle strida bestiali,
anch’io con le lacrime agli occhi
l’afferravo per le natiche cellulitiche
e con la forza del figlio ancora giovane
gli affondavo il pene empio e scellerato
d’un potente clistere sterminatore
fino al cuore, nella tana del Maligno,
sommergendo d’olio santo e di ricino
le urla spaventose degli assediati
finché sturavo quell’ano riottoso,
la cui finestra s’apriva ad un fiotto
inarrestabile di feci, una valanga
di topi rospi aquile serpenti
neri come pece che fuggivano
per ogni dove lontano dalla fogna
infine risanata, mentre alta
si levava soverchiante sul mondo
la voce consolatrice di Dio.
Io commosso e sfinito, ma contento,
potevo finalmente riaffacciarmi
a quella sgombra e chiara finestrella,
spiarvi ancora l’anima paziente
della Mamma, e in quel pezzo di cielo
inseguendo un volo di rondini
parlarle, seppure per poco,
di me della mia vita dei miei figli.

In fondo a un cunicolo cieco
trascurato dai percorsi caritatevoli
di parenti e curiosi, ignorato
perfino dal monatto di guardia
intento a giocare a tresette,
mi parve riconoscere l’amico
d’una infanzia comune e gloriosa
che lungo le vie della vita
da tempo ormai s’era perso
e qui protetto dall’ombra delle celle
era forse sfuggito anche ai severi
censimenti dell'Organizzazione.
Era uno afflosciato sul letto
come un sacco di roba dismessa,
con le membra di larva ancora stese
così come i monatti frettolosi
scaricandolo le avevano messe;
ma io lo riconobbi dall’occhio
ch’era aperto e sembrava vedere
e forse anche un po’ vergognarsi
di quel tubo indecente di catetere
che gli avevano messo fra le gambe.
Mi parve che facesse anche uno sforzo
per muovere un poco la bocca
e che ne uscisse anche un piccolo pianto;
sgomento m’appressai per carezzarlo
e dare del conforto a ciò che ancora
aveva una sembianza di persona
e in cui forse qualche organo pulsava;
fu allora che m’accorsi d’un tratto
ch’era vuoto come un bozzolo di baco
ormai dalla farfalla abbandonato,
e l’aria usciva da un polmone artificiale
che s’erano scordati di staccare.

Neppure molto lontano
c’era anche un delicato paravento
che celava agli occhi inquieti dei malati
un piccolo mondo geloso
fasciato di soffice silenzio
come una capanna nella neve.
Un uomo col capo fra le mani
piangeva sommessamente la compagna
che stava richiudendo i suoi petali
così appassiti che neanche più la notte,
che pure ritempra di rugiada
le cose inaridite dal giorno,
riusciva a rialzarli dai cuscini;
era intenta alla fatica di sciogliere
i lacci dell’anima da un corpo
forse ancora giovane e bello,
ma questo non voleva più morire
finché l’uomo continuava a carezzarlo
senza sosta come forse mai
aveva fatto nei giorni felici,
poi che ora era l’unico tramite
al suo amore, il solo filo prezioso
ancora acceso per farsi sentire
da quell’anima timida e gentile
che stanca del troppo soffrire
inarrestabilmente si ritirava,
e il pover’uomo non era più capace
neppure con continui baci
di trattenere quella cosa misteriosa
troppo tenue, evanescente, impalpabile,
che sembrava sfuggirle dalla bocca
esausta per l’impresa del morire
e che pareva già chiamarlo da lontano.

Pensai che per un caso sventurato
poteva essere la nostra compagna,
quella che scegliemmo gioiosamente
ascoltando incantati il nostro cuore
per essere con lei una sola carne,
e timorosi del Male del mondo
affidare per sempre alla sua guida
la dolce nostalgia della mamma.
Ma è quando su di noi sbalorditi
s’abbatte la stretta della morte,
che possiamo capire veramente
l’altissimo mistero benedetto
del più potente sacramento divino,
il grande dono di letizia e d’amore
che anche lei ci aveva fatto di sé;
e se ora l’amata che ci ha amati
è colpita da un destino infame
che nessuno dei mortali può capire,
se il suo tenero dolcissimo involucro
è avvizzito fra le nostre braccia,
mortificato e abbandonato alla sua sorte
ed alle nostre sbigottite lacrime
forse anche sciaguratamente da Dio,
esso è ancora tutto da baci;
si può non amare come se stessi
il grembo che ci accolse con amore
facendosi grotta e salvezza,
la bellissima carne che Dio
ora toglie ma che un giorno fu nostra,
il suo seno, la sua mano, il suo piede,
una sua unghia?
Così si compie nel freddo universo
quel caldo miracolo d’amore
che da solo può dare luce eterna
alla nostra breve vita corporale.

Confesso d’aver visto poco dopo
e spiato ignobilmente due vecchietti
nascosti in una cella lindissima,
quasi un’isola; una sorte gentile
aveva voluto che insieme
quelle vite fedelmente unite
si apprestassero anche alla morte;
nella cella dimentiche di tutto
quelle anime ricolme di grazia
si scambiavano l’amore più vero
che due esseri umani consapevoli
si possano donare, più vero
dello stesso amore irruento
e un po’ cieco che facevano da giovani;
lei col viso radioso circonfuso
di delicata saggezza femminile
aiutava il pene moscio ad infilarsi
nel posto più giusto e più bello
e lui senza vergogna, anzi grato,
si lasciava aiutare baciandola
con languore, assaporando come mai
l’abbraccio di quel corpo ancora caldo
ch’era limpida finestra dell’anima
e con sapienza forse divina
sopperiva alla vecchiezza della carne.
Il male, la materia, il dolore
in quella santa alcova era svanito;
io ritrassi commosso lo sguardo
vinto dal pudore e dal rispetto,
chiedendomi perché bisogna attendere
di essere dei vecchi ormai sfiniti
per imparare finalmente ad amare.

Ma intanto sulle carni dei morenti
l’opera emendatrice della morte
non perde tempo: siccome non ha sosta
il progresso del male, senza sosta
le macchine segano gli organi
che sono nel frattempo degenerati
e raschiano e livellano a zero
perfino le fattezze individuali;
aspetto e consistenza dei moribondi
diventa sempre meno uno dall’altro
distinguibile: si vedono soltanto
tutt’intorno laide deiezioni,
bocche, fiati, crani dondolanti,
le grigie facce amorfe tutte uguali
simili alla terra senza nome
che già si sta apprestando ad accoglierli
come inerti minerali del pianeta;
poco a poco si cancellano del tutto
anche quei confini territoriali
tanto a lungo difesi che separavano
le povere proprietà personali,
i loculi, i letti, le vesti,
perfino gli spazi fra i corpi
mille volte tagliati e ricuciti
man mano che le membra marcivano
ed erano amputate o scattivate,
ormai solo carne avariata
uguale a quella putrida di tutti;
anche il sordido liquido che cola
dalle bare in speciali canalette
è per tutti assolutamente uguale
per odore, sostanza, colore,
ed è avviato dalle fogne a concimare
le colture idroponiche del lazzaretto
per nutrire altre forme genicamente
alternative di organismi viventi
molto meno colpevoli: alghe
e piccole piantine fiorite
che non facciano male a nessuno,
secondo il progetto ambizioso
di scienziati che lavorano nei bunker
per una vita migliore sulla Terra
che rifiorisca generosamente
anche dopo il previsto catastrofico
suicidio dei popoli civili
e quindi la sicura cessazione
d’ogni fornitura di malati
e di carne peccatrice di morituri.

Ma talvolta accade qua e là
che perfino una massa così informe,
per ignavia troppo lenta a morire,
emetta qualche singolo caparbio
inutile pigolio di rivolta;
ora è solo una testa butterata
che senza arti tenta invano di drizzarsi,
ed ora un occhio quasi cieco e storto
che sbatte disperato le palpebre
dalla fossa senza luce d’una occhiaia
per mostrare che il corpo è ancora lì
e non possono quindi abbandonarlo;
ora è ciò che una volta fu una faccia
e fa smorfie orribilmente imperiose
affinché gli riaprano il buco
d’una bocca ricucita malamente
o ridiano l’esofago perdutosi
nell’ultima frettolosa operazione,
ora è un altro che reclama fra i lamenti
la pietà d’un po’ di belletto
o trattiene coi denti la manica
d’un monatto che sembra dabbene,
per avere un po’ di profumo
sulle parti acutamente maleodoranti.
Ma ai dottori è comandato severamente
di reprimere ogni atto d’indecente
natura libertaria e individualistica,
anzi è imposto di togliere con giustizia
qualche organo sano in esubero
ai moribondi di censo benestante
e d’attaccarlo anche in modo posticcio
a quelli meno abbienti cui manchi,
in modo che il campo della morte
sia arato e livellato equamente:
la Morte è la mamma di tutti
e tutti deve quindi amorosamente
rivestire con l’abito della domenica.

Quando dunque la carne dei morenti
è passata dal lungo corridoio
in cui vengono eseguite le riduzioni,
è diventata del tutto inconoscibile
per gli stessi costernati parenti:
le appendici così tanto familiari
del naso della bocca delle orecchie
sono state amputate o raschiate
come i porri, gli stomaci, le milze,
senza alcuna sociale discriminazione.
Eppure in un lurido cantuccio
dentro un secchio pieno d’ossa e budelle
riconobbi ugualmente una testa
quasi tutta piallata di vegliardo
che ancora caparbiamente sporgeva:
era proprio d’un vizioso fiorentino
ai suoi tempi acclamato poeta
che s’era fatto arrogante monarca
d’un branco di poeti necrofili
incestuosi stupratori del cadavere
di un ermetismo che andavano evocando
disseppellendolo da grigi cimiteri;
un potente una volta attorniato
da servi ed amanti ambiziose,
e che pure con tutti i suoi incensi
m’ebbe in astio, affamò, ed esiliò,
né mai seppi perché caddi in disgrazia
io che certo mai nulla avevo tolto
ai suoi caduchi onori mondani
né alle tristi sue serotine fornicazioni.
Adesso anche lui stava lì,
non assiso su uno splendido sarcofago
ma come un rospo raccattato per strada,
senza servi né amanti infedeli
a vegliarne la decomposizione;
tentava ancora di gonfiare il petto
e biascicare qualche storto verso
per attrarre con tutte le forze
l’attenzione dei monatti svogliati
perché almeno lo levassero dal secchio,
ma non aveva più lingua né denti
per trattenere in bocca la bava
e recitare le sue esangui poesie.

Quelle torpide cose parcheggiate
all’ultimo piano del Palazzo
non hanno più niente di umano,
solo sprazzi di menti rifugiatesi
in qualche territorio del cervello
ancora sano, ma con tutti i fili
dei neuroni tagliati ed isolati.
Forse è una tregua dai tormenti,
ma l’attesa vibra ancora d’inquietudine
per l’incombente Evento Sconosciuto;
c’è ancora qualcuno che si strugge
per il prodigo figlio lontano
che s’è perso nel tumulto del mondo
e non sa ch’è giunta l’ora della morte;
o per la casa che ha dovuto lasciare,
per il letto di ferro ch’era stato
dei buoni genitori e in cui sognava
d’essere riportato a morire:
non sa ch’è stato messo in cantina
come una vecchia nave in disarmo
sull’altra riva d’un oceano invalicabile,
le lenzuola e le vele ammuffite
riposte ordinatamente in un armadio,
non sa che una folla schiamazzante
di nipoti mai visti l’abborda
con le sciabole di legno sguainate
e le grinte da pirati feroci
per giocare ad affondarlo negli abissi.

Ma talvolta anche un figlio dimentico
ha un lampo di resipiscenza
e allora si precipita in auto
divorando pazzamente mille miglia
per vincere i tempi disumani
improrogabili delle macchine del Tritacarne.
La Mamma per tantissimi anni,
ormai gli occhi asciutti di lacrime,
l’ha atteso in accorato silenzio;
ora è lui con le lacrime agli occhi
a pregare il Signore di lasciargliela
solo un mese, un giorno, almeno un’ora,
perché l’ama e sta correndo da lei
sulla strada bagnata di pioggia
per riprenderla per sempre con sé
come ai bei tempi e non sarà più sola,
ecco, ancora un'ora e sarà lì
a tenersela stretta fra le braccia.
Ma un gravissimo incidente della strada
pone fine sull’asfalto grigio
anche a quella ch’era stata pei morenti
l’ultima, più dolce, più segreta,
più a lungo serbata speranza.

Quando infine la carne è stata vinta
dagli ultimi assalti del dolore
è prossima a vedere la Luce,
e allora i corpi monchi e ben raschiati
vengono accuratamente preparati
per l’iscrizione nelle liste d’attesa
della scientifica soluzione finale.
Non rispondono più alle carezze
e neanche agli stimoli luminosi
dei sensibili apparecchi misuratori
che provano le reazioni delle pupille;
eppure ancora, nello spesso silenzio
dei capezzali, ostinati parenti
spiano se c’è qualche conato
dell’intestino, qualche fioco ruggito
della cacca impotente ad uscire
da intasate aperture naturali,
che stremata come un vecchio leone
resta dentro ad attendere di morire.
Anche i mantici sdruciti dei polmoni,
che negli ultimi fiati del respiro
sembravano ancora gonfiarsi
come vele che nel caos dell’oceano
hanno scorto una terra da lontano,
sono mossi soltanto dal capriccio
di logori mantici meccanici
sull'orlo dell’ultima catastrofe.
Quando infine ogni moto si ferma,
il silenzio è la culla di pietra
per il loro riposo, ed il primo
disperato giorno di quiete
per i parenti sbigottiti e ammutoliti.

Forse si potrebbe provare
con la forza d’un atto disperato,
ma purtroppo soltanto meccanico
come semplice illusione di respiro,
a costringere l’aria appena espulsa
a rientrare nel corpo del morto
rimasto vuoto e a rimetterne in moto
i meccanismi; ma solo se un figliolo
fiutandone l’odore come un cane
riuscisse a riconoscere la madre
tra gli informi tronconi delle madri
allineate per il rito finale
e contro ogni legge di natura
rattoppando alla meglio l’involucro
e sperando che ancora qualche cellula
in qualche parte del corpo sia viva
bocca a bocca con furore incestuoso
riuscisse a rigonfiare quella salma
ora sgonfia come vuota mongolfiera
abbandonata dal buon argonauta.
Ma gli acidi mortiferi della tabe
stanno già rapidamente corrodendo
le pareti dei poveri bozzoli;
da tempo si vedeva gocciolare
nelle vasche di raccolta sotto i letti
un liquame dal fetore innominabile
che fino a poco prima era il corpo,
e l’anima dibattersi invano
asserragliata fra i resti del festino.

Insostenibilmente nauseato
di vedere e toccare dovunque
il sangue e il dolore del mondo,
m’è ancora dovuto accadere
nel mio girovagare alla ricerca
d’un pertugio, una finestra, una luce
che indicasse una via per fuggire,
di trovarmi rinchiuso proprio là
dove stavano in quattro macellando
con zelo cialtronesco e molto sangue
l’amico Oli, che non s’era ancora
rassegnato al destino di morire;
fischiettando tagliavano e segavano
chi un polmone chi uno stomaco o una gamba
a un vero Re, ma che aveva peccato
con ogni poro della carne ormai disfatta
ed ancora non s’era ravveduto
né aveva messo il cuore in mano a un prete.
Stridette a lungo come un porco scannato
e anch’io patii con lui come un fratello;
alla fine fu lasciato sul letto
legato ed esausto di fiato
a guardarsi stupito tutto il sangue,
pieno d’ira per lo scherzo inaspettato
che avevano giocato alla sua pelle
affrettando l’estremo sospiro
e il durissimo travaglio che attende
chi varca troppo presto lo stabilimento
situato all’ultimo piano.

E’ infatti proprio all’ultimo piano,
il più vicino all’Occhio di Dio,
che si compie l’ultimo atto
della festa grandiosa della morte.
Se i monatti hanno ben lavorato
al compito di domare per sempre
la pervicace volontà della carne
di vivere respirare e godere,
non occorre neppure la cautela
di portare il deceduto in catene
come agnello da sgozzare e sminuzzare:
viene messo supino sui carrelli
e spinto fino ai lindi reparti
addetti alla suprema trasformazione.
Questo sito è in contatto diretto
con l’Etere Superno allo scopo
di sublimare senza sprechi i prodotti
più leggeri della lunga raffinazione
ed è gestito con solidi criteri
di produzione industriale di massa
con moderni ed efficienti macchinari
mossi dalla forza irresistibile
di energie probabilmente sovrannaturali;
è là che avverrà finalmente
con gran pompa e rigorose procedure
l’evento degno di tanto minuziosa
preparazione del corpo e dell’anima,
il programma che agitava i sonni
allucinati di folle di malati:
la sublime misteriosa trasmutazione
dell’ignobile carne corrotta
nella nobile sostanza dello spirito.

Ma prima i tronconi di carne,
che tracce ostinate di vita
ancora istintualmente animalesca
manterrebbero purtroppo a lungo impuri
e propensi a morire nel peccato,
son tradotti dai carrelli automatici
nell’anticamera addetta al prelavaggio
per lo spurgo macroscopico dei liquami
ed una buona decorosa toilette.
Gli aiutanti di prima assunzione,
addetti a questo semplice incarico
di bassa manovalanza, li accolgono
con zelo francamente giovanile
armati di sistole e boccagli
a perfetta tenuta che infilano
con grande attenzione, ma a forza,
nell’esofago docile degli impuri
per farli attraversare da un flusso
continuo e travolgente d’acqua pura
che poi tumultuosamente si scarica
da un altro tubo inserito nell’ano
per espellere ogni frustolo di cacca
che si fosse per caso incagliato
in un anfratto accidioso del budello,
finché tutta l’acqua corrente
esca limpida e pura dai culi
come fresca acqua sorgiva;
e allora migliaia di campanellini
avvertono che il lavacro è terminato.
A questo punto i rubinetti son chiusi,
i tubi staccati e riposti,
ed i tronchi, lavati a puntino,
inviati al grande piano superiore
col timbro che autorizza l’Esecuzione.

I monatti in paramenti sacerdotali,
quali si convengono all’ufficio
di austeri direttori d’orchestra,
ritti nel salone d’accoglienza
smistano la carne da macello
scaricata dai veloci montacarichi
fra le varie sezioni specialistiche,
dove gli ultimi frustoli malati
rimasti testardamente attaccati
vengono con diligenza catalogati
secondo le ufficiali patologie
di fegati, intestini e cistifellee
da migliaia d’operaie in cuffia bianca,
dal cui consesso mirabilmente ordinato
si leva il brusio rassicurante,
come di violini all’unisono,
di migliaia di bocche argentine,
scricchiolii di macchine registratrici,
ticchettii d’infaticabili computer.
Sono quindi escissi a dovere
e sminuzzati con coltelli affilati
ed esatti movimenti di danza,
o meglio con benefiche mannaie
ma più grandi schizzi di sangue
su solidi ceppi di legno;
invece le parti coriacee
sono opportunamente affidate
a sensibili robot telecomandati
muniti di efficienti seghe elettriche,
con più breve anche se intenso disgusto
e parziale sollievo degli operatori.

I pezzetti di carne malata
così ottenuti, assolutamente privi
di qualsivoglia ordine morale,
sono allora dai nastri trasportatori
convogliati dentro il tunnel del Tritacarne
per essere finalmente macinati
e ricavarne la quintessenza spirituale;
il resto è comunissima carne
che non fece né bene né male,
appartenente al nostro regno animale
ma priva d’ascendenza spirituale;
potrebbe dunque ancora utilmente
essere data ai cani che a decine
vagabondano sempre nei paraggi
nell’irrequieta attesa di un osso
o d’un ghiotto budello sanguinoso
e ingordamente annusano il vento,
ma l’accorta e scrupolosa Amministrazione
opina che non sia tanto sana
da rientrare negli standard di sicurezza
prescritti dal Peccato Originale
e sia anch’essa da inviare al Tritacarne,
forse in seconda ma obbligata istanza
per il recupero completo dello spirito.

Ora dunque nell’enorme sala,
dove ululano e cigolano lamentosamente
sotto il carico della carne che stride
i lucenti meccanismi d’acciaio,
tutta la materia colpevole
che proviene dal carnaio del mondo
è costretta dalla morsa inesorabile
di potenti ganasce stritolanti
ad entrare fra i denti dei mulini
che la tritano insonni giorno e notte
fino a farne finissima poltiglia,
che poi goccia a goccia è torchiata
finché si ottiene un olio limpidissimo
da colare nei grossi alambicchi
dove energici acidi corrosivi
dissolvono gli ultimi costituenti
della materia organica animalesca
in cui ha sede inguaribile il Male
facendo sì ch’essa esausta s’arrenda
e abbandoni la turpe nostalgia
per la tana inabitabile d’un corpo
ormai corrotto dalla pratica del peccato,
riscatti infine il Male originario
e sublimi per alchemica evaporazione.

M’hanno detto ch’è molto importante
per il buon funzionamento della Macchina
e una corretta ed efficace morte
che il flusso della carne sia continuo,
che non restino mai posti vuoti
nelle file dei nastri trasportatori
che scorrono velocemente alla meta,
né che vi si accalchi per caso
più d’un morto alla volta nella foga
lodevolmente autogiustiziera
d’essere tritati per primi;
ma neanche che restino attaccati
agli infaticabili ingranaggi
carnicci duri o schegge aguzze d’ossa
che possano ferire o squilibrare
gli squisiti sensori dei ruotismi
che regolano il moto di trascinamento:
la pressione dei morti che entrano
dev’essere assolutamente uguale
a quella che fuoriesce dalle filiere,
qualunque inceppamento degli ingranaggi
provocherebbe spiacevoli esuberi
e lunghe code nella pur paziente
popolazione dei corpi che premono
e che più non saprebbe dove andare
a finire felicemente di morire.

Ma occorre molta cura e attenzione
anche per i tubi di scarico
facilmente soggetti a meteorismo
perché vi scorre la materia indigerita
che attraversa tutto il ventre del Tritacarne
e deve pur sboccare all’esterno
per dar sollievo a un’eccessiva pressione:
bisogna di frequente raschiare
ossidazioni ed altre laide incrostazioni
che potrebbero provocare un ristagno
nel flusso del liquame dando luogo
a gravi fermentazioni gassose,
ovvero, con rispetto parlando,
a moleste maleodoranti flatulenze
e più gravi esplosive reazioni
a catena, forse incontrollabili
anche da espertissimi pompieri
se dovessero malauguratamente
propagarsi ai mastodontici depositi
delle cloache rigonfie di biogas.

Non si creda dunque il Tritacarne
una macchina affidata meramente
all’alea dei propri automatismi,
sono anzi migliaia gli addetti
all’attenta manutenzione e lubrificazione
con tanto d’ingegneri in tuta bianca
e casco antidisgrazia d’ordinanza;
pare anche ch’essa venga giornalmente
revisionata con pezzi di ricambio
sempre più resistenti alla pressione
e all’acre corrosione cadaverica
per un sempre più alto livello
di produttività; non si dimentichi
che tale mole è progettata per smaltire
scrupolosamente e senza danni
l’enorme produzione del mondo,
quindi grande perfezione tecnologica
e adeguata collaudata robustezza
deve avere il potente meccanismo
che regola il fluire della materia
anche nella fase culminante
del massimo sforzo di triturazione,
quando altissimo e quasi insostenibile
è l’orribile lamento della carne,
che sovrasta lo stesso fragore
dei motori e delle macchine elettriche.

Ma è anche un’opera eccelsa
di grande bellezza architettonica
ed alta edificazione morale,
di conforto perfino allo sguardo
necessariamente quasi spento
dei rari fortunati non ancora
completamente morti cui talvolta
accade di poterla contemplare
come loro ultima casa,
grandiosa benevola cattedrale:
il disegno generoso del ventre
sempre maternamente accogliente,
la bocca modellata ad imbuto
di artistica linea moderna
per trasferire agevolmente il carico
dei pezzi di carne dolente
nella bella confortevole caldaia,
e infine il lungo tubo digerente
di speciale acciaio cromato
ritorto più volte su se stesso
con volute di grande eleganza
dove ha luogo l’accurata raffinazione
prima della soluzione finale.
Ma è anche molto bello soffermarsi
sull’opera importante e meritoria
delle macchine accessorie più umili
coadiuvanti le funzioni più importanti,
sul brusio sereno e operoso
di dottori e fuochisti che si muovono
con grande armonia nell’alveare,
sul pulsare regolare dei pistoni,
sui gradevoli fischi di vapore
fuoriuscenti dalle valvole di sicurezza
nelle alterne vicende della digestione,
e sui tuoni sotterranei delle cloache
quando s’aprono di botto le cateratte
a una valanga tumultuosa di materia
indigerita che preme dai cassoni
dove sono accumulati i liquami;
anche se non sempre purtroppo
è possibile evitare con certezza
che sfuggano esalazioni mortifere
per l’imperfetto funzionamento delle valvole.

Tuttavia né la torbida poltiglia
che schizza dalla prima spremitura
dai grandi torchi lucidi e fiammanti,
e neppure il liquido limpido
ottenuto da sapiente digestione
dell’olio di seconda spremitura,
ma neanche la sostanza volatile
ricavata da alchemica distillazione
delle gocce preziose di fluido,
è bastevolmente purificata;
ha ancora dei vaghi sentori
di intriganti secrezioni corporali
ed è quindi ancora incapace
di elevarsi dal disordine della materia
alla nuova dignità dello spirito;
è dunque assolutamente necessario
sottoporla ad una nuova e più profonda
radicale distillazione molecolare,
deve ancora passare e ripassare
allo stato aeriforme su finissimi
sofisticati catalizzatori di platino
fino al vuoto quasi assoluto
perché s’avvezzi ad essere privata
d’ogni traccia di sostanza materiale
e possa trasmutarsi istantaneamente
al successivo sconvolgente trattamento
con penetranti scariche elettriche
in una nube di onde elettromagnetiche
molto prossime ad assumere la dignità
di uno stato puramente metapsichico
senza spazio né tempo, destinato
a dilatarsi oltre i confini miserabili
troppo angusti di questo nostro mondo.

Ma neppure dopo tanto intensa
drastica metapsichicizzazione
questa tenera nube neonata
d’invisibili onde extracorporee,
ormai fornite di una vita propria
certo gioiosamente autosufficiente,
si può dire del tutto mondata
d’ogni traccia del cordone ombelicale
che la legava all’utero della terra:
ancora ne inquinano la purezza
i tenaci residui dei pensieri
che a lungo occuparono la mente
con carnali categorie di spazio e tempo.
E’ soltanto nell’ultima e più nobile
sovrumana Macchina Elettrica
torreggiante nel più alto dei cieli
e supremo miraggio alle folle
doloranti e assetate dei peccatori,
soltanto nel più alto e infinitamente
perfetto ciclotrone mai veduto
sulla rozza superficie della Terra
in cui milioni e milioni di volt
di altissima sovrumana tensione
sono immessi direttamente da Dio
nel crogiuolo del magnete acceleratore
per bombardare con neutroni velocissimi
questa nube senza dubbio extracorporea
ma grondante di memorie corporali,
è solo qui che avviene il gran cozzo
coi terribili raggi divini,
la violenta esplosiva distruzione
degli ultimi ricordi materiali
retaggio d’una carne infelice:
infame orrendo grido doloroso
della Materia vinta finalmente,
che in un vivido lampo accecante,
che attraversa tutto il Male e la Tenebra
di un universo squassato da un tremito,
è costretta a trasformarsi in Antimateria,
la misteriosa prima forma dello Spirito.

E’ dunque proprio qui, fratelli miei,
esattamente nel punto focale
della lente del sublime ciclotrone,
che anche il più piccolo residuo
di memoria di sé, folgorato,
libera la goccia di luce
che Dio per suoi fini imperscrutabili
aveva imbenignamente impastato
con un ego di carne mortale,
ma che da questo istante di osanna
s’appresta in un abbraccio a ricongiungersi
con la dolcissima Luce più grande
di cui tanto soffriva nostalgia;
quella Luce che ai dubbiosi spettatori
con gli occhi non ancora schiusi
dalla forza chirurgica della morte
sembra tanto dolorosamente invisibile.
Lasciate le cose del mondo,
ha finalmente il suo inizio e la sua fine
il vero viaggio celeste dello spirito.

Il ciclo del Male e del Bene
ora è compiuto.
Dalla vetta più lucente della Macchina,
dai terrazzi, dai tetti, dai camini,
dai pori che s’aprono nel cemento
e in un fremito guardano ai cieli,
i puri spiriti sfuggono migrando
ognuno con un piccolo sospiro,
come un gas più leggero dell’aria
che sfuggendo ad un tratto a un palloncino
sgonfiatosi con grande meraviglia
nelle mani impazienti d’un bimbo
fa pfffff appena prima di sparire
nel blu più profondo dei cieli.

Oh, Spiriti infine felici,
liberati dalle spade fiammeggianti
dei chirurghi designati da Dio
con magnanima sapienza a separare
esattamente il Male dal Bene
e l’Ordine dal Disordine
per restaurare l’armonia dell’universo,
mentre ancora quaggiù trattenuti
fra le pieghe d’una carne tracotante
troppe anime infelici di superstiti
senza pace gozzovigliano col peccato
dentro corpi via via sempre più vecchi,
sempre più corrotti e cadenti,
che non hanno ancora conosciuto
il beneficio del castigo e del perdono.
Noi incapaci da soli di liberarci
invochiamo umilmente che Dio
faccia presto a strapparci lo spirito
dagli inutili involucri dei corpi,
che son solo destinati come foglie
a coprire di ossa e lamenti
le plaghe disperate della Terra.

Generosa, benefica Sorella,
nostra buona Morte corporale,
finalmente possiamo comprendere
la splendente generosa verità
del tuo umile compito ingrato;
ora certo con nuova dignità
t’ameremo e desidereremo
come unica meta e salvezza,
e mendicheremo ai tuoi piedi
il grande taumaturgico dolore
che ci liberi l’anima dal Male
e dischiuda i nostri occhi alla Luce.

 

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