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BALLATA DEL VECCHIO CAPITANO

La prima edizione di Ballata del vecchio capitano è uscita nel 2002 per i tipi della Ibiskos Editrice di Empoli. Questa edizione è stata appena ritoccata.
In questo poemetto, che è lo sviluppo di un episodio già accennato in “Isole e vele”, l’esplorazione nei meandri di un antico relitto di piroscafo semisommerso e l’incontro con lo scheletro del vecchio Capitano lasciatosi morire con la sua nave offrono al giovane marinaio, in un istante di estasi, la possibilità tanto a lungo vagheggiata di vedere con gli occhi il mistero della vita oltre la morte e infine di liberare dalla dannazione l’anima del capitano e della nave.

La mia vita fu a lungo avvelenata
dall’iniquo mistero della morte;
vivevo nel timore che una notte
il mio piccolo io nel grande letto
si perdesse per sempre senz’appello
nell’orribile silenzio dell’eternità.
Da fanciullo non riuscendo a prender sonno
nascondevo la testa fra i cuscini;
da grande correvo per i mari
di terra in terra con la vela solitaria
per sfuggire all’ossessione che inseguiva
le mie notti e per avere una risposta
dai silenzi dei cieli stellati
o dai vasti orizzonti marini.
Ma un dì di questa vita raminga
ebbi la ventura di trovarmi
proprio sulla soglia del Mistero,
di scrutare dentro l’Occhio stesso
ignudo e trasparente della Morte,
e fui stupito della sua amorosa
inimmaginabile dolcezza.

Quel giorno il mio piccolo veliero
braccato dalla furia dell’oceano
a stento trovò fra i marosi
scampo al cedimento delle vele
nella baia fortunata di un’isola
sconosciuta a ogni carta del tempo,
sconosciuta anche ai più vecchi naviganti
e abbandonata da Dio ad un destino
che allora mi parve incomprensibile.
Le pareti della costa a picco
ospitavano un inquieto stridio
d’uccellacci marini d’una specie
che non seppi riconoscere; indefessi
andavano e venivano su e giù
dalle altissime pareti scoscese
come mosche impazienti tutte intente
a disossare un’enorme carogna;
le strida rimbalzavano sulle rupi
in un fitto brulichio di echi
fino a notte inoltrata e poi sparivano
dentro buchi profondi della roccia,
ma da cui stranamente era assente
ogni gaio pigolio di nuovi nati.

Fui preso da grande inquietudine
quando vidi che dentro quei nidi
si stagliavano solo le sagome
di uccelli mostruosamente rugosi
per la vecchiaia, che alla fine del giorno
sazi di spolpare la carogna
riposavano; ma io ch’ero esausto
e al sicuro dagli affanni marini
nella quiete assoluta d’una baia
che ripide ed alte falesie
proteggevano facendo corona
contro i venti maligni dell’oceano
mi lasciai docilmente rapire
da un sonno profondo e senza sogni.

Il giorno dopo dietro un promontorio
scoprii la Carogna di Ferro.
Era gelosamente nascosta
nel ventre materno d’una cala
ed emergeva appena dal mare
solo con l’immensa prua
adagiata sulla spiaggia fatale
e ricoperta da uccelli neri e immobili
quasi fossero vecchi soldati
posti a guardia di severe catacombe.
Al mio apparire d’animale intruso
come nuvola s’alzarono in volo
con baccano di ali e di strida
ma restarono a osservare minacciosi
roteando nell’aria lentamente
in larghi cerchi d’ali ferme e aperte.

Il rudere coperto di ruggine
era quello d’un antico bastimento
gettato come enorme cetaceo
in una notte lontanissima di tempesta
da un’ondata gigantesca a morire
di lenta agonia sulla spiaggia,
la prua inutilmente protesa
verso il cielo, ed il ventre e la poppa
nascosti per sempre ad occhio umano
nelle cieche profondità dell’oceano.
Io stupito e affascinato indugiavo
a meditare l’indicibile visione,
mentre i neri uccelli guardiani
s’affollavano con altissime strida
tutt’intorno sbattendo le ali,
ma io non capivo se cercassero
d’impedirmi ogni passo sacrilego
o invitarmi benevoli a una sorta
di gelosa iniziatica conoscenza.

La nobile Carcassa di Ferro
era spoglia d’antenne e fumaioli
e d’ogni segno dell’antica bellezza,
ma possente come un vecchio Re
stava ancora eretta sul trono
e sembrava custodire da sempre
come un dio della luce e delle tenebre
la terribile immobilità del Tempo.
Invano il battito dei soli e delle notti
lavoravano insieme per fiaccarne
la ferrea forza, invano la risacca
s’accaniva sulle vaste lamiere
facendo risuonare di echi
le caverne dell’enorme ventre:
la vecchia Nave non apparteneva
ormai più alle opere umane
ma sembrava trapassata ad un mondo
superiore ed eterno e che l’Oceano
l’avesse per suoi fini imperscrutabili
abbandonata su una spiaggia della Terra.

L’impulso ad esplorarla era forte
malgrado il rispetto che incuteva
ed il sacro timore di violare
la soglia d’un mondo sommerso;
ma al mio cuore, anche se incredulo,
pareva di sentire la presenza
del vecchio Re che dal profondo della Nave
desiderasse farmi entrare nel suo ventre
perché almeno un essere umano
conoscesse il suo tragico segreto.
Io ignoravo dove egli si celasse,
ma poi ch’ebbi vinto il timore
mi sentii trasportato da una mite
devozione di figlio e strisciai
con tutta la mia giovane pietà
fra le labbra spalancate delle ferite
scostando e piegando le lamiere
come fa un amoroso chirurgo
chino su un ferito sfortunato
forse morto, per almeno prestargli
il conforto cristiano d’un viatico.
Varcai così la soglia d’una chiesa
da tempo sconsacrata, brutalmente
distrutta  un tempo dai lampi e dalle grida
di una cieca guerra sovrumana.

Ora un denso felpato silenzio
era sceso fra il cielo e la terra
come se un pesante sipario
fosse stato calato alle mie spalle
da una provvida invisibile Volontà;
la grande cattedrale sommersa
lasciava percepire soltanto
una sorta di brusio indecifrabile
appena udibile, quasi provenisse
da una folla d’intelligenze lontanissime
che il rimbombo dei miei passi feriva.
Ero assolutamente consapevole
di lasciare alle mie spalle il vecchio mondo
con il cielo, il sole, gli uccelli,
il mare amato, la mia piccola barca
fedele compagna di intense
ma ordinarie terrene navigazioni,
per entrare in un mondo senza tempo,
forse un regno di grande sapienza
il cui Re io non sapevo ancora
se regnasse sul Bene o sul Male.
Ma dopo aver varcato quella Soglia
ebbi in cuore comunque la certezza
d’essere lo strumento terreno
di un’arcana missione ultraterrena.

Mi inoltrai in punta di piedi
per non rompere con suoni molesti
l’armonia subentrata nel mio spirito;
sempre più lontano e ovattato
era in me il ricordo del mondo
lasciato in superficie, quel rombo
cupo ed ostinato delle onde
martellanti sul ferro arrugginito;
ora udivo appena soltanto
il fluire impercettibile dell’acqua
che entrava ed usciva quietamente
dagli squarci della Nave; ella giaceva
supina come un corpo di balena
abbattuta da un antico dolore,
nel cui ventre forse qualcuno
al lume d’una piccola candela
vegliava un penoso segreto.

Preso dalla foga della conoscenza
mi spinsi sempre più affascinato
in un mondo di cabine e saloni
che s’aprivano per squarci improvvisi
davanti ai miei occhi stupiti
mentre il pavimento inclinato
scivolava sempre più profondamente
nei gelosi recessi del mare.
Mi tenevo ad ogni appiglio di fortuna
per il timore di scivolare rovinosamente,
ma infine divenne palese
ch’era solo lo spirito della Nave
a guidarmi ciecamente per mano
negli oscuri meandri del suo ventre
per un fine che sentivo amico.

La spiaggia era ormai lontanissima,
solo appena un incerto ricordo
di labili echi terrestri,
mentre continuavo a discendere
verso il luogo a me destinato
dell’immensa poppa sommersa
che ignoravo dove andasse a morire.
Dalla semioscurità degli oblò
capivo di trovarmi di molto
al di sotto del livello del mare
ma riuscivo ancora a respirare
in una serie di camere d’aria,
vaste bolle di aria malata
che per strani fenomeni naturali
non s’erano completamente allagate,
probabili uniche superstiti
del rapido sacrificio della Nave
e forse anche ultimo rifugio
alle forme immateriali di vita
che ancora sembravano abitarvi.

Infatti nell’aria stagnante
percepivo dei timidi moti,
onde delicate dell’etere
come aliti di esseri viventi;
forse ombre rimaste da allora
prigioniere in quella bara di aria?
Ma se il giro bizzarro del sole
filtrato da non so quale pertugio
s’insinuava nell’ombra con un raggio
brevissimo od anche soltanto
con un lieve mutamento di luce,
subito le creature lucifughe
a frotte come timide pecorelle
svanivano nel buio più profondo
e più lontano di altre caverne.

Ma non c'era alcun resto mortale
dell’eroico equipaggio sfortunato;
forse avevano tentato disperatamente
la salvezza al primo impatto con gli scogli
gettandosi invano, pregando,
dagli altissimi ponti della Nave
fra le braccia di frangenti assassini;
o forse la lunga eternità
aveva da tempo dissolto
l’effimera materia corporale
di quelli intrappolati fra le lamiere,
serbandone per un caso rarissimo
soltanto la memoria delle forme,
gli spiriti abbracciati l’uno all’altro
in un Limbo senza pena né peccato.
Il destino ora voleva ch’io ascoltassi
di quelle impalpabili creature
il supplice pietoso alitare,
come quello di chi da troppo tempo
aveva invano atteso soccorso.

Come le caverne e i cunicoli
che bizzarra Natura talvolta
fa scendere paurosamente nelle viscere
più nascoste della crosta terrestre,
così anche i budelli della Nave
sembravano scendere infinitamente
verso il centro della Terra ed io con loro
a inseguirli con fede temeraria
giù per botole anguste e labirinti
dimenticati, senza luce e senz’aria,
valicando ostacoli di ferraglia
e passando faticosamente per anfratti
talvolta semiasciutti e talvolta
con l’acqua che arrivava alla cintola,
ma sempre trascinato dall’ansia
di conquistare la Grande Conoscenza.
Ero certo che questa si celasse
in un profondo meandro della Nave,
presso al cuore, di cui già percepivo
il fioco ma vicino pulsare.

Il sacello ove alfine pervenni
attraverso l’ultima porta
che dovetti sventrare con le mie mani
era il cuore ferito della Nave,
il sepolcro solitario del Capitano
perito nel furore d’una notte
senza stelle e senza scampo;
emanava una debole luce
dovuta forse a una crescita straordinaria
di microscopiche alghe fosforescenti,
per cui potevo ancora distinguere
le cose morte: il vecchio libro di bordo,
l’astrolabio, gli strumenti sfortunati
per misurare il lungo corso delle stelle,
la nicchia vuota d’una cuccia abbandonata.
Da quando in quella notte il tempo
si era brutalmente fermato,
questo era il regno del Silenzio,
ed io m’inchinai con rispetto
come chi aveva sempre inseguito
per guardarla fissamente in volto
la verità della Vita e della Morte
ed ora fosse davanti alla sua porta.

M’accorsi che affiorava dalla melma
il teschio venerando quasi intatto
del Vecchio Capitano; le occhiaie
conservavano la nobile dolcezza
velata di mestizia d’un padre;
dicevano tutto il dolore
di non essere riuscito a salvare
la sua Nave dalla furia della tempesta,
la sua impotenza a manovrare tra i frangenti,
i suoi uomini in cerca di salvezza
che cadevano colpiti dai marosi;
a lui era toccato di succhiare
tutto il calice amaro della morte
fino all’ultimo terribile respiro.
Ma io non sentivo che il tormento
di un unico pensiero, mi chiedevo
se nel preciso istante del trapasso
gli si fosse incisa nella retina
la vera fotografia di ciò che vide
della Vita oltre la Morte, il flash di luce
precluso a noi viventi dal muro
così spesso della nostra cecità;
ma sapevo che i poveri buchi
delle occhiaie ridotte a incrostazioni
non potevano certo più mostrarmi
l’immagine bramata e temuta.

Eppure chinandomi su di lui
per salvare quelle ossa infelici
dandogli cristiana sepoltura,
m’accorsi stupito d’un prodigio:
le occhiaie erano piene di lacrime
e due pupille emanavano ancora
un fioco lume che in tutto quel tempo
forse mai del tutto s’era spento;
anche la sua voce udii levarsi
da non so dove, e pronunciava “Figlio,
lascia le mie ossa nella Nave;
ho voluto morire con lei
come muoiono i cani fedeli
sulla tomba del padrone, ma l’anima
non ha potuto staccarsi dal corpo
così oltraggiato, è rimasta impigliata
in questo limbo di dolore ed invano
ha atteso la clemenza del tempo;
solo tu col tuo giovane cuore
puoi scioglierne i lacci e liberarla
da questa tomba; avvicinati, ti prego,
e com’è scritto nel Libro dei Morti
sussurrami all’orecchio le parole
che l’anima ha bisogno d’ascoltare.
Poi è scritto che dovrai abbandonare
al suo destino la tua piccola barca
e prendere il comando della Nave,
disincagliarla, rimetterne la prora
ad Oriente, attraversare l’oceano,
guidare finalmente i nostri spiriti
incontro all’agognata salvezza”.

Come un bravo figlio devoto
m’appressai con rispetto alla sua tempia
e a bassa voce recitai lentamente
e a lungo le parole dei Sapienti
finché vidi il suo volto sereno.
Ma non seppi trattenermi dal violare
il gran regno dei morti e ansiosamente
scrutai la sua pupilla nell’istante
preciso in cui stava abbandonandosi
per sempre alla vitrea fissità
dei nudi teschi consegnati al Tempo:
cercavo insomma una piccola breccia
per vedere finalmente le immagini
fedeli della Vita oltre la Morte
che avevano assillato la mia vita.
Tutto ciò che seguì non so dire
se fu miracolo o un’estasi indicibile
cui soggiacque il mio corpo forse esausto,
ma vi dico che s’aprì, sì s’aprì
finalmente quel diaframma fatale
che separa il mondo dei vivi
da quello silente dei morti,
vidi il fondo luminoso del tunnel
che esce dal nostro universo
e come un cordone ombelicale
porta al luogo d’una luce suprema
così piena d’Amore e di Grazia
ch’io subito potei riconoscerla
come quella dolcissima della Madre.

Erano graziose e benigne,
circonfuse d’un chiarore ineffabile
le diafane figure gentili
di fratelli e sorelle sorridenti
che venivano a incontrarmi sulla soglia
prendendomi amorosamente le mani
per condurmi là dove la Luce
era infinitamente più grande,
ma a me era concesso di vederne
solo il poco che filtrava dai varchi
della mente corporale, ch’era cieca
come gli occhi d’un gattino appena nato.
Io avevo il bisogno struggente
di farmi possedere dalla Luce,
di abbandonarmi alle materne braccia
di quel grande universo d’Amore;
ma il compito cui ero destinato
m’impedì di varcarne la soglia
e seguii la forza misteriosa
che pur con dolcezza m’invitava
a tornare al relitto della nave.

La Nave era là che attendeva
che io finalmente la sciogliessi
dai lacci del profondo letargo,
invocava con pietosi appelli
che prendessi il mio posto di comando,
liberassi la carena insabbiata,
risvegliassi finalmente lo Spirito
nella triste ferraglia arrugginita
d’un corpo così a lungo condannato;
potevo già sentire che un fremito
scuoteva le macchine in rovina,
sembravano già pronte a balzare
al mio umile comando di marinaio
sulla rotta dei Mari d’Oriente
per congiungersi alla Grande Famiglia.

Il mio umile cuore di marinaio,
uso solo alle manovre delle vele
d’una piccola barca, per prodigio
divenne forte come il grande cuore
d’un vero capitano degli oceani,
quando diede l’ordine imperioso
“Sorgete!” alle macchine di ferro
alte come rupi di aquile
ma corrose da secoli d’attesa;
ed io come un vero Capitano
gioii per il furore del fuoco
che arrossava le caldaie, pel vapore
che entrava fischiando nei cilindri,
per il potente stridore delle bielle
che iniziavano il moto, esultai
quando vidi gli enormi stantuffi
alzare e abbassare le schiene
come docili ubbidienti giganti
sempre più veloci, osannai
per il moto vorticoso delle eliche
che scatenavano una forza sovrumana,
per gli uomini che accorrevano piangendo
alle manovre, per il denso fumo nero
scagliato in cielo mentre io rapito
gridavo “A tutta forza macchine indietro!”

Adesso ero io
il Vecchio Capitano che dritto
sul ponte come un vero soldato
illuminato da sapienza divina
aizzava le macchine e gli uomini
impaziente d’assistere al miracolo
della nascita, anche a costo di vedere
le caldaie scoppiare nel loro fuoco.
Il miracolo accadde: la mia Nave,
compagna e fedele rifugio
nelle notti del letargo corporale,
rialzò con uno sforzo il suo capo
come un mostro risvegliato dal sonno,
la prua si scosse con tremendi balzi
di drago imbizzarrito, tutte quante
le eliche alzarono in un vortice
montagne di schiuma e di sabbia
scavando caverne in una terra
che voleva imprigionarle, io ancora urlavo
“Indietro a tutta forza!” aggrappato
al timone ad ogni scossa della Nave
impennata verso il cielo paurosamente
per liberarsi dalla morsa degli scogli.

Nella lotta mortale di balena
che con colpi terribili della coda
cercava disperatamente il mare
udii l’urlo agghiacciante della carena
graffiata crudelmente dalle rocce
che abbrancate come mostri alla preda
forse troppo a lungo posseduta
volevano costringerla a seguire
il loro destino senz’anima;
ma vidi la bellissima prora
svincolarsi dall’abbraccio mortale
e scivolare, scivolare in acqua
con la poppa che infine galleggiava,
tutta la mia Nave galleggiava!
era un candido cigno
guarito dell’antico dolore.

Quando misi la prua nell’alto oceano
abbandonando l’isola dei Morti,
cedetti per rispetto il comando
al vero Capitano, mio buon Padre
finalmente riunito alla sua Sposa,
che ora aveva gli occhi color mare
e col cuore traboccante di fuoco
per tutte le caldaie roventi
che sputavano in alto fumo e fiamme
corse a tutta forza sull’onda
alzando grandi spume gioiose
ad ogni flutto che incontrava sulla rotta.
Fu il grandissimo volo di un albatro
affrancato d’ogni peso corporale,
librato senza tema nell’aria
per l’ultimo suo viaggio mortale.

Il mio compito ormai era finito,
ma non forse ancora consumato
il mio piccolo tempo mortale:
una Mano mi volle sollevare
prima dell’impatto fatale
della Nave con la Grande Luce
che splendeva all’orizzonte d’Oriente.
Mi ritrovai su di una piccola scialuppa
con una vela leggera di fortuna
a contemplare senza più timore
le benevole stelle che indicavano
la giusta rotta alla mia nuova vita;
potevo finalmente abbandonarmi
in un oceano amico ai buoni venti
del mio ritorno ad un porto terreno
fra le ignare buone genti della terra,
dove gli uomini giusti sanno attendere
alle umili cure quotidiane
e alla fine serena dei giorni.

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